Politica

Capitol Hill: così muore la Ragione

Nel suo “La Società aperta e i suoi Nemici” Karl Popper sosteneva che le teorie della cospirazione sono il risultato della secolarizzazione religiosa. Il progresso e uno sviluppo basato sul paradigma capitalista hanno ampiamente modificato gli stili di vita tradizionali, lasciando l’essere umano a dover interpretare la realtà senza l’ausilio dei grandi schemi di comprensione del mondo, come appunto la religione. Ed è proprio in questa mancanza di comprensione del mondo che le teorie cospiratorie trovano terreno fertile per riprodursi offrendo una comprensione del mondo estremamente semplificata, così illogica da sembrare più logica della complessissima realtà che ci troviamo a vivere. L’evoluzione della nostra specie è stata costellata di schemi di comprensione quasi fantascientifici per spiegare l’inspiegabile, come il sole che sorge e tramonta perché trainato da un carro o i fulmini attribuiti alla rabbia di Giove. Abbiamo un bisogno innato di comprendere e quando non ci riusciamo allora necessitiamo di spiegazioni che, seppur fantascientifiche, sembrano spiegare l’inspiegabile a cui stiamo assistendo.

Ed è così che funzionano le teorie cospiratorie. Spiegano in maniera infantile quello che altrimenti andrebbe spiegato con studi, teorie e dimostrazioni. Poco importa che le teorie siano palesemente ridicole, c’è chi ci crederà perché sono immediate e non richiedono alcuno sforzo di ricerca. Sono per natura uno strumento pigro e codardo. Non si tratta solo di idiozie da bar, ma vere e proprie lenti d’analisi della realtà, che sopperiscono alla mancanza di strumenti per interpretare un mondo sempre più complesso. Uno studio redatto da Proijen e Jostmann dimostra che un’incomprensione del funzionamento di una struttura di potere facilita l’insorgenza di teorie della cospirazione. Più una di queste strutture agisce con riservatezza, più si ha spazio per fantasticare su teorie bizzarre che, troppo spesso, diventano armi nelle mani di politicanti senza scrupoli che ne approfittano per persuadere le fasce di popolazione meno avvezza al pensiero razionale. Ed è cosi che, nelle mani di tali politicanti, la necessaria riservatezza istituzionale su argomenti sensibili diviene espressione di un “governo criminale” o che “agisce con il favore delle tenebre”. Poco importa quali siano le prove che sostengono tali accuse o quali siano i motivi di determinata riservatezza, l’importante è che le accuse, seppur vuote, siano urlate a gran voce, così da permettere all’emotività di prendere il sopravvento sulla razionalità.

Ma la questione è ben altra: può sopravvivere una democrazia in queste condizioni di rifiuto della razionalità? Nella tradizione dell’Antica Grecia i cittadini dopo essersi documentati con quanta più razionalità possibile erano chiamati ad esprimere il proprio pensiero sulle vicende relative alla polis. Era insomma una democrazia che, per poter funzionare, doveva essere fondata sulla capacità razionale dell’individuo. Ma se questa capacità razionale viene a mancare, allora può sussistere il concetto di democrazia? Se un cittadino rifiuta di prendersi la briga di documentarsi utilizzando un metodo scientifico, è giusto che costui abbia diritto di partecipare alla vita democratica? O è forse un atto di tradimento poiché contribuisce al fallimento della democrazia stessa? Se la democrazia è una valore sacro allora è giusto difenderla da coloro i quali cercano di deturparla per pigrizia, ignoranza o malafede.

Tuttavia, chi si dovrebbe occupare di definire che merita ti partecipare alla vita democratica? Si tratta di un esercizio pericolosissimo, ma una cosa è chiara: così non si può continuare e i fatti di Capitol Hill ne sono la conferma. Sembra ora che una discussione di questo tipo vada affrontata, perché il pericolo che gli individui razionali si trovino alla mercé degli individui irrazionali sembra divenire di giorno in giorno più pressante.

Politica

Libia: Articolo 11 e la Sconfitta Geopolitica Italiana

“L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.”

Bellissimo e sacrosanto. L’art. 11 è uno degli articoli più importanti della costituzione repubblicana ed evidenzia le aspirazioni pacifiste dei padri costituenti immediatamente dopo la fine della seconda guerra mondiale. La terribile esperienza degli scontri e la lungimiranza dei legislatori nel periodo immediatamente successivo hanno portato ad uno dei più lunghi periodi di pace e prosperità nello stivale italico e, per estensione, in Europa.

Lo stesso articolo indica infatti che la via maestra per il conseguimento di pace e giustizia nei rapporti internazionali è la creazione di organizzazioni capaci anche di limitare la libertà di azione dello stato. A patto, chiaramente, che tutti gli stati partecipanti garantiscano a queste istituzioni sovranazionali determinati poteri e che tutti gli stati vi coesistano in condizioni di uguaglianza. Il desiderio di pace tra paesi era e, si spera, è cosi forte da superare ogni sovranismo e porta i governi nazionali a rinunciare a parte del loro potere per assicurare protezione e stabilità ai loro popoli. Perché sì, i biechi sovranismi sono una minaccia ai popoli, non ai politici che li sventolano a fini propagandistici per accaparrarsi qualche voto.

Dobbiamo tuttavia tenere presente anche che l’art. 11 riserva il potere di intraprendere azioni belliche per legittima difesa nell’intento di respingere un attacco armato che metta in pericolo l’esistenza e l’indipendenza dello Stato (interpretazione suffragata dal combinato disposto degli art. 11, 78, 87 e 52 Cost). Questo concetto di difesa da un’invasione risulta però quantomeno anacronistico nell’Europa moderna, dove i confini tra stati sono ben definiti e sussistono organi forti preposti alla soluzione di controversie internazionali.

La costituzione repubblicana del ‘47 non poteva prevedere che l’ordine dei conflitti tra stati (almeno in quello che definiamo primo mondo) si sarebbe spostato sul livello di proxy war – guerra per procura. E soprattutto, che nella maggior parte dei casi il casus belli di un conflitto non sarebbe stata un’invasione ma la necessità di imporre forza geopolitica al fine di assicurarsi un accesso agli approvvigionamenti energetici.

Se il conflitto libico ci ha insegnato qualcosa è che buona parte della nostra indipendenza energetica come paese dipende infatti dalla pressione geopolitica che siamo in grado di esercitare in Nord Africa. È difficile trattare argomenti simili senza passare per un nostalgico del vergognoso periodo coloniale, ma la recente entrata in gioco della Turchia di Erdogan nel conflitto libico ha dimostrato la debolezza intrinseca della geopolitica italiana, perfino nei confronti di quella che fu una colonia del Regno d’Italia. Sebbene la situazione si sia risolta con un accordo per un trilaterale Italia – Russia – Turchia viene da chiedersi se questa non si tratti di una vittoria di Pirro che di fatto umilia l’Italia. Il nostro paese è stato infatti per più di un secolo e fino alla caduta di Gheddafi l’interlocutore preferenziale per i contatti tra Libia ed Europa. Dalla caduta del dittatore per la volontà di potenze straniere di assicurarsi il controllo sulle preziosissime risorse libiche, il nostro paese è stato ridotto ad un ruolo marginale, tanto da essere quasi rimasto escluso da ogni discussione inerente il futuro della Libia. Gli annunci trionfanti del ministro Luigi Di Maio sono in realtà un’umiliazione: l’Italia non solo non è stata in grado di imporre nessun potere geopolitico in un paese in conflitto, ma si è addirittura fatta soffiare da sotto il naso la posizione di primo interlocutore da Russia (passi, è una superpotenza) e Turchia.

Erdogan, non ha avuto paura di decidere quasi unilateralmente di inviare truppe fresche per sostenere il primo ministro libico Al-Sarraj contro le milizie del generale Haftar e indubbiamente riuscirà ad imporre un’influenza turca nel paese. Mentre a noi, ça va sans dire, il rischio di perdere il controllo degli approvvigionamenti petroliferi dalla Libia. Questa inattesa ingerenza turca non solo è un’altra conferma dell’incapacità dell’Unione Europea di imporre una qualsivoglia politica estera comune, ma anche sintomo della debolezza geopolitica italiana vista l’incapacità di farci valere perfino con un paese con cui abbiamo sempre avuto un rapporto preferenziale.

L’art. 11 è sacrosanto e la non-belligeranza italiana deve essere preservata a tutti i costi; anche nonostante i nostri avversari in Libia non si pongano problemi nel ricorrere ai loro eserciti per portare avanti i propri interessi nazionali. Tuttavia, viene da chiedersi se quell’indipendenza del paese che, secondo l’art. 11, deve essere garantito anche con mezzi militari non includa anche l’indipendenza energetica visto il cambiato contesto rispetto al ‘47? Se così fosse, ci sarebbe qualcuno disposto a schierare ampie porzioni del nostro esercito in Libia? Probabilmente no (mi auguro). Ma a questo punto, che fine sono destinati a fare i paesi europei se questa UE è incapace di fare gli interessi geopolitici del continente mentre altri attori si fanno beffa della nostra non-belligeranza? Mai come in questi tempi l’Europa è apparsa come un gregge di agnellini circondato da un branco di lupi. È arrivato il momento per l’UE di pensare e agire da superpotenza, altrimenti è destinata ad implodere.

Politica

Capitol Hill: così muore la Ragione

Hehe su Nel suo “La Società aperta e i suoi Nemici” Karl Popper sosteneva che le teorie della cospirazione sono il risultato della secolarizzazione religiosa. Il progresso e uno sviluppo basato sul paradigma capitalista hanno ampiamente modificato gli stili di vita tradizionali, lasciando l’essere umano a dover interpretare la realtà senza l’ausilio dei grandi schemi di comprensione del mondo, come appunto la religione. Ed è proprio in questa mancanza di comprensione del mondo che le teorie cospiratorie trovano terreno fertile per riprodursi offrendo una comprensione del mondo estremamente semplificata, così illogica da sembrare più logica della complessissima realtà che ci troviamo a vivere. L’evoluzione della nostra specie è stata costellata di schemi di comprensione quasi fantascientifici per spiegare l’inspiegabile, come il sole che sorge e tramonta perché trainato da un carro o i fulmini attribuiti alla rabbia di Giove. Abbiamo un bisogno innato di comprendere e quando non ci riusciamo allora necessitiamo di spiegazioni che, seppur fantascientifiche, sembrano spiegare l’inspiegabile a cui stiamo assistendo.

Ed è così che funzionano le teorie cospiratorie. Spiegano in maniera infantile quello che altrimenti andrebbe spiegato con studi, teorie e dimostrazioni. Poco importa che le teorie siano palesemente ridicole, c’è chi ci crederà perché sono immediate e non richiedono alcuno sforzo di ricerca. Sono per natura uno strumento pigro e codardo. Non si tratta solo di idiozie da bar, ma vere e proprie lenti d’analisi della realtà, che sopperiscono alla mancanza di strumenti per interpretare un mondo sempre più complesso. Uno studio redatto da Proijen e Jostmann dimostra che un’incomprensione del funzionamento di una struttura di potere facilita l’insorgenza di teorie della cospirazione. Più una di queste strutture agisce con riservatezza, più si ha spazio per fantasticare su teorie bizzarre che, troppo spesso, diventano armi nelle mani di politicanti senza scrupoli che ne approfittano per persuadere le fasce di popolazione meno avvezza al pensiero razionale. Ed è cosi che, nelle mani di tali politicanti, la necessaria riservatezza istituzionale su argomenti sensibili diviene espressione di un “governo criminale” o che “agisce con il favore delle tenebre”. Poco importa quali siano le prove che sostengono tali accuse o quali siano i motivi di determinata riservatezza, l’importante è che le accuse, seppur vuote, siano urlate a gran voce, così da permettere all’emotività di prendere il sopravvento sulla razionalità.

Ma la questione è ben altra: può sopravvivere una democrazia in queste condizioni di rifiuto della razionalità? Nella tradizione dell’Antica Grecia i cittadini dopo essersi documentati con quanta più razionalità possibile erano chiamati ad esprimere il proprio pensiero sulle vicende relative alla polis. Era insomma una democrazia che, per poter funzionare, doveva essere fondata sulla capacità razionale dell’individuo. Ma se questa capacità razionale viene a mancare, allora può sussistere il concetto di democrazia? Se un cittadino rifiuta di prendersi la briga di documentarsi utilizzando un metodo scientifico, è giusto che costui abbia diritto di partecipare alla vita democratica? O è forse un atto di tradimento poiché contribuisce al fallimento della democrazia stessa? Se la democrazia è una valore sacro allora è giusto difenderla da coloro i quali cercano di deturparla per pigrizia, ignoranza o malafede.

Tuttavia, chi si dovrebbe occupare di definire che merita ti partecipare alla vita democratica? Si tratta di un esercizio pericolosissimo, ma una cosa è chiara: così non si può continuare e i fatti di Capitol Hill ne sono la conferma. Sembra ora che una discussione di questo tipo vada affrontata, perché il pericolo che gli individui razionali si trovino alla mercé degli individui irrazionali sembra divenire di giorno in giorno più pressante.

Politica

Israele-Emirati Arabi Uniti: un accordo in sordina

Il recente accordo per la normalizzazione dei rapporti tra Israele ed Emirati Arabi sembra passato un po’ in sordina nei mass media italiani, alle prese con l’aumento dei casi di coronavirus e le questioni di politica interna. Tuttavia, si tratta di un evento che potrebbe cambiare definitivamente i rapporti di forza nello scenario mediorientale e, a voler ben guardare, si tratta del primo indiscutibile successo diplomatico della presidenza Trump.

I rapporti tra i due paesi sono stati di segreta collaborazione fin dai tempi del crollo delle Torri Gemelle. Gli Emirati fecero infatti affidamento su compagnie di sicurezza informatica israeliane per ricostruire la loro credibilità come centro finanziario, scalfita dal fatto che gli attentatori sauditi avevano utilizzato proprio Dubai come snodo per trasferire i fondi poi utlizzati per finanziare gli attacchi del 9/11 . Nel tempo la cooperazione si è poi estesa a svariati settori dell’impresa, andando a spaziare dal settore spedizioni a quello immobiliare, fino alla desalinizzazione di acqua marina.

Questa cooperazione si è ora ufficialmente consolidata per varie ragioni tra cui le pressioni americane, la comune minaccia geopolitica iraniana, ma sopratutto la volontà degli Emirati di assurgere al ruolo di mediatore primario per i conflitti mediorientali. Se da un lato sia l’inquilino della Casa Bianca che il premier israeliano Netanyahu hanno celebrato l’accordo come un evento storico, dall’altra il principe Mohmmed bin Zayed – de facto governatore degli Emirati – ha mantenuto un approccio più freddo e distaccato. Quest’accordo infatti costituisce un tradimento della causa palestinese, da sempre sostenuta tanto dagli Emirati quanto da quasi tutto il resto del mondo islamico. Sebbene Netanyahu si sia impegnato a sospendere, almeno temporaneamente, le sue politiche di espansione nella West Bank palestinese in cambio della creazione di rapporti bilaterali, il presidente dell’autorità palestinese Mahmoud Abbas ha definito l’accordo “una vergogna”.

Il cambiamento di posizione dei due paesi non è però una sorpresa per chi segue le questioni mediorientali da vicino: da tempo infatti gli Emirati cercano di estendere la loro capacità di soft power, anche a discapito di cause storiche come quella palestinese. Pare addirittura sia in programma la costruzione di una sinagoga ad Abu Dhabi per promuovere il dialogo inter-religioso, ed è notizia di qualche settimana fa che Israele sarebbe stata invitata a partecipare con un suo padiglione ad Expo 2020 (ora 2021) che avrà luogo proprio a Dubai.

La normalizzazione dei rapporti è anche in parte merito di un articolo fatto pubblicare dall’ambasciatore degli Emirati a Washington su un quotidiano nazionale israeliano. L’articolo esprimeva a chiare lettere la volontà degli Emirati di normalizzare i rapporti con Israele, ma puntualizzava che questo non sarebbe stato possibile se Tel Aviv avesso proseguito con le sue mire espansionistiche nei territori palestinesi. Questo appello sembra abbia avuto un riscontro molto positivo presso l’opinione pubblica israeliana, assicurando a Netanyahu la possibilità di sospendere il tanto contestato piano espansionista senza apparire sconfitto dalle pressioni esterne, ma anzi quasi garantendogli l’opportunità di autocelebrarsi come leader moderno ed illuminato.

In un’ottica realista la mossa si carica di significato non solo in quanto pare che entrambi i paesi vogliano astrarsi dalle lotte di potere tra Iran ed Arabia Saudita, ma anche perché potrebbe essere fondamento per la creazione di un terzo polo di paesi “non-allineati” a cui potrebbero presto aggiungersi attori minoritari come Oman e Bahrain. Oppure, come sostiene Jason Greenblatt (rappresentante dell’amministrazione Trump in Medioriente), potrebbe essere l’inizio di una comune presa di coscienza del fatto che i giorni del boicottaggio a Israele sono finiti ed è ora tempo di crescere insieme. Il problema sarà spiegarlo ai palestinesi.

Politica

L’Eterna Lotta “all’Alienus” del Braveheart Padano

Confesso di avere un vizio. Uno di quei vizi per l’appunto inconfessabili nell’Italia dei giorni nostri. Sono un peccatore, un pericoloso sovversivo, una bomba a orologeria. Confesso di essere vittima e artefice di una pericolosissima velleità intellettuale: mi piace documentarmi consultando ricerche universitarie ed articoli specialistici. Mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa.

Praticando questa mia perversione ho recentemente letto un articolo sul pensiero leghista, scritto della professoressa Julia Kherbtan-Horhager della Colorado State University. I rilevamenti constatano un fatto interessante: lo stile della Lega di Matteo Salvini (la professoressa fa nomi e cognomi) è fondato sull’othering. L’othering può essere definito come il processo sociologico attraverso cui un individuo, o un gruppo di individui, definisce la propria natura prendendo le distanze da quanto è “other” – alieno, diverso – al netto di quali siano le differenze e quanto siano comprovabili. Sono sicuro che questa mia spiegazione ha già attirato il disprezzo di tutti i sociologi all’ascolto ma una semplificazione era doverosa. Voglio esagerare: noi siamo italiani in quanto esistono tedeschi, francesi e via dicendo, ma se le altre nazionalità non esistessero avrebbe senso definirci italiani? Probabilmente no. Spero di essermi spiegato.

Secondo la professoressa l’intera narrativa leghista è da sempre fondata su questo processo: “padani” contro “terroni” prima, italiani contro immigrati poi, passando per l’evergreen cristiani contro musulmani. Non mi stupirei se il giorno in cui trovassimo gli alieni la Lega (Lega Nord prima che cambiasse il nemico) diventasse “Lega Mondo” in difesa del pianeta contro le migrazioni interplanetarie. Il concetto è semplice: dai alla gente un nemico e questa si unirà contro il nemico proclamato. Nulla di nuovo, però in virtù del vezzo culturale di cui parlavo mi è sembrato figo metterlo in termini tecnici. Non c’è redenzione per me, sono incorreggibile.

Questo costante bisogno di polarizzare la narrativa di partito è fondamentale per la sopravvivenza di un ideale che è altrimenti destinato a perire vista la sua generica infondatezza culturale. E questa necessità è quanto mai ovvia in questi giorni, quando il leader leghista si rifiuta di indossare la mascherina sanitaria per proteggersi dal Covid, organizza assembramenti e partecipa a convegni da complottisti. Qual è lo scopo di tale prese di posizione? Tenere fede ad un ideale? Assolutamente no. Lo scopo di tali sceneggiate è semplice: fingersi paladini delle libertà civili combattendo la pericolosa dittatura sanitaria delle mascherine, messa in atto dal temibile governo proletario guidato dallo stalinista Giuseppe Conte. Il nostro Braveheart padano, alla guida di un partito coinvolto in innumerevoli scandali, si erge a cavaliere senza macchia che combatte le forze del male votate a distruggere le libertà individuali. Suona ridicolo, vero? Eppure, se ci pensate, è così. Il messaggio che vuole mandare è questo: “noi” siamo uomini e donne liberi e “voi” che ci ordinate di mettere la mascherina per sicurezza degli oppressori. Ancora una volta si ripropone il mitologico “noi contro di loro”.

Fa quasi sorridere. Ma in fondo è un buon segno. È forse l’ultimo tentativo di un leader in decadenza di sopravvivere alla realtà dei fatti. Un leader che da uomo forte del partito si è ridotto ad essere macchietta caricaturale di quei valori che quel partito incarnava. Un ultimo colpo di coda prima dell’inesorabile tramonto politico.

Non sono mai stato leghista, ma credo che i leghisti si meritassero un leader migliore. Almeno uno che non si prendesse gioco di loro.

Nell’attesa che venga eretta la mia pira funeraria in Campo de’ Fiori faccio presente che basterebbe aprire gli occhi per rendersi conto che nelle file del partito ci sarebbero leader più seri e capaci. E forse è arrivato il momento per il popolo leghista di farsi sentire. Non per noi, non per il paese, ma per loro stessi.

Società

L’Italia ai Tempi del Colera

– L’Italia è fatta, ora dobbiamo fare gli affari nostri – disse Gaspare nel superbo “I Viceré” di De Roberto del 1894. Tristemente, a distanza di più di un secolo, nulla sembra essere cambiato. In un paese in cui il 40% dei votanti sostiene partiti che hanno fatto dell’amor di patria un perno della loro retorica, mai nessuno si sarebbe aspettato di dover assistere alle surreali scene di ieri sera alla stazione di Milano. Superfluo ormai spiegare i motivi di tale fuga e il pericolo che questa rappresenta, ma è vitale prendere coscienza di quanto sia perfetta rappresentazione della miseria umana in cui l’Italia si è ridotta. O forse da cui non è mai uscita, viste la parole di De Roberto.

In un paese in cui esponenti politici di spicco fanno propaganda speculando sull’emergenza pare che ormai rispetto e responsabilità siano solo atteggiamenti da saputelli boriosi, vittime sacrificali deposte all’altare della misera ambizione personale. L’amor di patria diviene strumento politico solo ai fini di combattere un presunto nemico diverso da noi, al netto della sua effettiva esistenza, mentre per noi la patria rimane solo un concetto vetusto estrapolato dalla sceneggiatura di qualche film di guerra americano.

Le fughe improvvisate di ieri sera, contrarie a qualsiasi indicazione degli enti sovrani del paese che diciamo di amare, non è altro che un triste rimando all’iconica scena dei topi che fuggono dalla nave che affonda. Badate bene che non si tratta di una semplice fuga dal coronavirus, bensì di una fuga dal proprio dovere morale di cittadino. È un estremo atto di egoismo da parte di chi è disposto a mettere in ginocchio l’intera Italia piuttosto che accettare di buon grado un temporaneo confino precauzionale. È l’apoteosi dell’individualismo e della pochezza morale di chi italiano si sente solo quando c’è da sentirsi superiori a chi italiano non lo è. È un soldato che rompendo le righe non solo abbandona i suoi compagni alla mercé del nemico, ma anzi condanna alla rovina il paese per cui combatte. È il lascito di secoli di guerre fratricide, non ancora sepolto dai 159 anni di unità d’Italia. È la mentalità di Gaspare de “I Viceré. È l’umiliante prova che oggi come allora avevano ragione quelli che – citando il nostro inno – ci umiliavano perché “non siam popolo”. È l’essere fratelli quando c’è da succhiare dal seno di mamma Italia, ma nemmeno parenti alla lontana quando c’è da difenderla.

Un giorno quest’epidemia finirà e tutto tornerà come prima, ma ancora una volta avremo perso l’opportunità di dimostrare a noi stessi che non siamo un popolo di vigliacchi e traditori. Ancora una volta siamo riusciti a dimostrare che governare gli italiani non è difficile, ma semplicemente inutile. Nonostante i moltissimi gesti nobili compiuti da tanti in questi tempi difficili, ancora una volta abbiamo dimostrato che ci sarà sempre chi è pronto ad abbandonare la nave non appena comincia la burrasca. Ancora una volta abbiamo dimostrato che per noi il senso civico è un concetto esotico. Ancora una volta abbiamo rinunciato a dimostrare di saper essere fratelli italiani in tutto e per tutto, nonostante tutto.

Ma in fondo poco importa perché anche questa volta ci laveremo delle nostre colpe additando l’immigrato o l’UE di turno, senza mai trovare il coraggio di guardarci allo specchio. -Uniti, per Dio, chi vincer ci può?- scriveva Mameli. Pare abbiamo trovato una risposta: noi. Anche questa volta, il nostro più grande nemico siamo stati noi stessi. E anche questa volta, siamo riusciti a sconfiggerci.

Attualità, Medioriente, Politica

Donald Trump e l’Arte della Guerra

È indubbio che la recente uccisone del generale Qasem Soleimani abbia causato smottamenti considerevoli sullo scacchiere mediorientale e sorpreso buona parte degli analisti. Nessuno sembra infatti avere ancora compreso appieno la ragione dietro questo attacco che, al momento, pare assolutamente scriteriato visti i fragilissimi equilibri di potere nella zona. Al netto della retorica di parte e delle considerazioni morali, è facile notare un alto livello di pigrizia intellettuale nell’opinione pubblica e di alcuni esperti che analizzando l’accaduto si limitano a raffazzonate opinioni “aprioristiche” in base alla fazione che desta più simpatia o affinità. I social media sembrano essersi polarizzati nelle ormai classiche categorie di trumpisti contro anti-trumpisti, imperialisti contro anti-imperialisti, guerrafondai contro pacifisti e via dicendo.

Sebbene sia nella natura umana, è assolutamente disastroso valutare i rapporti tra potenze in medio oriente secondo un semplicistico paradigma binario di buoni contro cattivi, ignorando le sfaccettature che ogni attore porta con sé. Trump è indubbiamente stato fin dalla sua elezione una figura divisiva che polarizza le opinioni, ma pensare che un intervento di questo tipo sia stato programmato ed orchestrato da lui in persona è quantomeno naïve e sintomo di quella pigrizia intellettuale a cui accennavo.

Credo che per cogliere il significato dietro l’uccisione del generale Soleimani sia necessario analizzare l’evento da un punto di vista semantico. Lo stratega militare Sun Tzu nel suo celeberrimo “L’Arte della Guerra” sosteneva che una volta circondato un esercito, un generale avrebbe sempre dovuto lasciare aperte delle vie di fuga per il nemico, che sarebbe altrimenti diventato estremamente pericoloso trovandosi a combattere per la propria vita. Una strategia che, se applicata alla politica odierna, prescriverebbe di lasciare la possibilità ad un avversario sconfitto o comunque in inferiorità di ritirarsi onorevolmente, senza perdere la faccia di fronte al suo popolo.

L’uccisione del generale Soleimani risulta però particolare tanto nella sua ideazione quanto nella sua esecuzione: gli Stati Uniti agendo di sorpresa ed eliminando un individuo di tale livello gerarchico hanno infatti lasciato al regime iraniano solo la rappresaglia come mezzo per salvare la faccia. Inoltre, agendo al di sopra delle leggi internazionali, hanno voluto mandare un messaggio ad amici e nemici: in medio oriente la legge siamo noi. Un concetto che è stato addirittura rafforzato dal tweet di Donald Trump il giorno successivo in merito alla minaccia di distruzione di alcuni siti culturali iraniani in caso di rappresaglia da parte dell’Iran. Non solo un’azione criminale ai sensi della Convenzione dell’Aja ma un attacco alle radici culturali del paese stesso quasi con l’intento di soffocare quella cultura. Ancora una volta, sebbene poi smentito, il messaggio era chiaro: qui comandiamo noi e nessuno su ha modo di punirci.

Insomma non sorprende la rappresaglia della notte scorsa da parte dell’Iran che ha lanciato missili balistici contro postazioni americane in Iraq. La reazione degli Stati Uniti probabilmente non si farà attendere considerate le parole del presidente Trump, anche se al momento l’impressione è che nessuno dei due stati abbia interesse nell’innescare la polveriera mediorientale e di invischiarsi in un conflitto a lungo termine. Tuttavia, per dirla con Sun Tzu, questa escalation si sarebbe potuta evitare se si fosse garantito all’Iran un modo per salvare la faccia dope le svariate sanzioni e l’uccisione del generale Soleimani. A meno che gli americani non sperassero proprio nella rappresaglia per giustificare un infoltimento delle proprie truppe in medio oriente proprio per iniziare un guerra contro l’Iran, ultimo paese in medio oriente non ancora sotto il loro controllo. Ma questo sarebbe l’inizio ti tutta un’altra storia. Una storia destinata a non finire bene.

Attualità, Medioriente, Politica

Donald Trump e l’Arte della Guerra

È indubbio che la recente l’uccisione del generale Qasem Soleimani abbia causato smottamenti considerevoli sullo scacchiere mediorientale e sorpreso buona parte degli analisti. Nessuno sembra infatti avere ancora compreso appieno la ragione dietro questo attacco che, al momento, pare assolutamente scriteriato visti i fragilissimi equilibri di potere nella zona. Al netto della retorica di parte e delle considerazioni morali, è facile notare un alto livello di pigrizia intellettuale nell’opinione pubblica e di alcuni esperti che analizzando l’accaduto si limitano a raffazzonate opinioni “aprioristiche” in base alla fazione che desta più simpatia o affinità. I social media sembrano essersi polarizzati nelle ormai classiche categorie di trumpisti contro anti-trumpisti, imperialisti contro anti-imperialisti, guerrafondai contro pacifisti e via dicendo.

Sebbene sia nella natura umana, è assolutamente disastroso valutare i rapporti tra potenze in medio oriente secondo un semplicistico paradigma binario di buoni contro cattivi, ignorando le sfaccettature che ogni attore porta con sé. Trump è indubbiamente stato fin dalla sua elezione una figura divisiva che polarizza le opinioni, ma pensare che un intervento di questo tipo sia stato programmato ed orchestrato da lui in persona è quantomeno naïve e sintomo di quella pigrizia intellettuale a cui accennavo.

Credo che per cogliere il significato dietro l’uccisione del generale Soleimani sia necessario analizzare l’evento da un punto di vista semantico. Lo stratega militare Sun Tzu nel suo celeberrimo “L’Arte della Guerra” sosteneva che una volta circondato un esercito, un generale avrebbe sempre dovuto lasciare aperte delle vie di fuga per il nemico, che sarebbe altrimenti diventato estremamente pericoloso trovandosi a combattere per la propria vita. Una strategia che, se applicata alla politica odierna, prescriverebbe di lasciare la possibilità ad un avversario sconfitto o comunque in inferiorità di ritirarsi onorevolmente, senza perdere la faccia di fronte al suo popolo.

L’uccisione del generale Soleimani risulta però particolare tanto nella sua ideazione quanto nella sua esecuzione: gli Stati Uniti agendo di sorpresa ed eliminando un individuo di tale livello gerarchico hanno infatti lasciato al regime iraniano solo la rappresaglia come mezzo per salvare la faccia. Inoltre, agendo al di sopra delle leggi internazionali, hanno voluto mandare un messaggio ad amici e nemici: in medio oriente la legge siamo noi. Un concetto che è stato addirittura rafforzato dal tweet di Donald Trump il giorno successivo in merito alla minaccia di distruzione di alcuni siti culturali iraniani in caso di rappresaglia da parte dell’Iran. Non solo un’azione criminale ai sensi della Convenzione dell’Aja ma un attacco alle radici culturali del paese stesso quasi con l’intento di soffocare quella cultura. Ancora una volta, sebbene poi smentito, il messaggio era chiaro: qui comandiamo noi e nessuno su ha modo di punirci.

Insomma non sorprende la rappresaglia della notte scorsa da parte dell’Iran che ha lanciato missili balistici contro postazioni americane in Iraq.

La reazione degli Stati Uniti probabilmente non si farà attendere considerate le parole del presidente Trump, anche se al momento l’impressione è che nessuno dei due stati abbia interesse nell’innescare la polveriera mediorientale e di invischiarsi in un conflitto a lungo termine. Tuttavia, per dirla con Sun Tzu, questa escalation si sarebbe potuta evitare se si fosse garantito all’Iran un modo per salvare la faccia dope le svariate sanzioni e l’uccisione del generale Soleimani. A meno che gli americani non sperassero proprio nella rappresaglia per giustificare un infoltimento delle proprie truppe in medio oriente proprio per iniziare un guerra contro l’Iran, ultimo paese in medio oriente non ancora sotto il loro controllo. Ma questo sarebbe l’inizio ti tutta un’altra storia. Una storia destinata a non finire bene.