Società

L’Italia ai Tempi del Colera

– L’Italia è fatta, ora dobbiamo fare gli affari nostri – disse Gaspare nel superbo “I Viceré” di De Roberto del 1894. Tristemente, a distanza di più di un secolo, nulla sembra essere cambiato. In un paese in cui il 40% dei votanti sostiene partiti che hanno fatto dell’amor di patria un perno della loro retorica, mai nessuno si sarebbe aspettato di dover assistere alle surreali scene di ieri sera alla stazione di Milano. Superfluo ormai spiegare i motivi di tale fuga e il pericolo che questa rappresenta, ma è vitale prendere coscienza di quanto sia perfetta rappresentazione della miseria umana in cui l’Italia si è ridotta. O forse da cui non è mai uscita, viste la parole di De Roberto.

In un paese in cui esponenti politici di spicco fanno propaganda speculando sull’emergenza pare che ormai rispetto e responsabilità siano solo atteggiamenti da saputelli boriosi, vittime sacrificali deposte all’altare della misera ambizione personale. L’amor di patria diviene strumento politico solo ai fini di combattere un presunto nemico diverso da noi, al netto della sua effettiva esistenza, mentre per noi la patria rimane solo un concetto vetusto estrapolato dalla sceneggiatura di qualche film di guerra americano.

Le fughe improvvisate di ieri sera, contrarie a qualsiasi indicazione degli enti sovrani del paese che diciamo di amare, non è altro che un triste rimando all’iconica scena dei topi che fuggono dalla nave che affonda. Badate bene che non si tratta di una semplice fuga dal coronavirus, bensì di una fuga dal proprio dovere morale di cittadino. È un estremo atto di egoismo da parte di chi è disposto a mettere in ginocchio l’intera Italia piuttosto che accettare di buon grado un temporaneo confino precauzionale. È l’apoteosi dell’individualismo e della pochezza morale di chi italiano si sente solo quando c’è da sentirsi superiori a chi italiano non lo è. È un soldato che rompendo le righe non solo abbandona i suoi compagni alla mercé del nemico, ma anzi condanna alla rovina il paese per cui combatte. È il lascito di secoli di guerre fratricide, non ancora sepolto dai 159 anni di unità d’Italia. È la mentalità di Gaspare de “I Viceré. È l’umiliante prova che oggi come allora avevano ragione quelli che – citando il nostro inno – ci umiliavano perché “non siam popolo”. È l’essere fratelli quando c’è da succhiare dal seno di mamma Italia, ma nemmeno parenti alla lontana quando c’è da difenderla.

Un giorno quest’epidemia finirà e tutto tornerà come prima, ma ancora una volta avremo perso l’opportunità di dimostrare a noi stessi che non siamo un popolo di vigliacchi e traditori. Ancora una volta siamo riusciti a dimostrare che governare gli italiani non è difficile, ma semplicemente inutile. Nonostante i moltissimi gesti nobili compiuti da tanti in questi tempi difficili, ancora una volta abbiamo dimostrato che ci sarà sempre chi è pronto ad abbandonare la nave non appena comincia la burrasca. Ancora una volta abbiamo dimostrato che per noi il senso civico è un concetto esotico. Ancora una volta abbiamo rinunciato a dimostrare di saper essere fratelli italiani in tutto e per tutto, nonostante tutto.

Ma in fondo poco importa perché anche questa volta ci laveremo delle nostre colpe additando l’immigrato o l’UE di turno, senza mai trovare il coraggio di guardarci allo specchio. -Uniti, per Dio, chi vincer ci può?- scriveva Mameli. Pare abbiamo trovato una risposta: noi. Anche questa volta, il nostro più grande nemico siamo stati noi stessi. E anche questa volta, siamo riusciti a sconfiggerci.

Politica

Libia: Articolo 11 e la Sconfitta Geopolitica Italiana

“L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.”

Bellissimo e sacrosanto. L’art. 11 è uno degli articoli più importanti della costituzione repubblicana ed evidenzia le aspirazioni pacifiste dei padri costituenti immediatamente dopo la fine della seconda guerra mondiale. La terribile esperienza degli scontri e la lungimiranza dei legislatori nel periodo immediatamente successivo hanno portato ad uno dei più lunghi periodi di pace e prosperità nello stivale italico e, per estensione, in Europa.

Lo stesso articolo indica infatti che la via maestra per il conseguimento di pace e giustizia nei rapporti internazionali è la creazione di organizzazioni capaci anche di limitare la libertà di azione dello stato. A patto, chiaramente, che tutti gli stati partecipanti garantiscano a queste istituzioni sovranazionali determinati poteri e che tutti gli stati vi coesistano in condizioni di uguaglianza. Il desiderio di pace tra paesi era e, si spera, è cosi forte da superare ogni sovranismo e porta i governi nazionali a rinunciare a parte del loro potere per assicurare protezione e stabilità ai loro popoli. Perché sì, i biechi sovranismi sono una minaccia ai popoli, non ai politici che li sventolano a fini propagandistici per accaparrarsi qualche voto.

Dobbiamo tuttavia tenere presente anche che l’art. 11 riserva il potere di intraprendere azioni belliche per legittima difesa nell’intento di respingere un attacco armato che metta in pericolo l’esistenza e l’indipendenza dello Stato (interpretazione suffragata dal combinato disposto degli art. 11, 78, 87 e 52 Cost). Questo concetto di difesa da un’invasione risulta però quantomeno anacronistico nell’Europa moderna, dove i confini tra stati sono ben definiti e sussistono organi forti preposti alla soluzione di controversie internazionali.

La costituzione repubblicana del ‘47 non poteva prevedere che l’ordine dei conflitti tra stati (almeno in quello che definiamo primo mondo) si sarebbe spostato sul livello di proxy war – guerra per procura. E soprattutto, che nella maggior parte dei casi il casus belli di un conflitto non sarebbe stata un’invasione ma la necessità di imporre forza geopolitica al fine di assicurarsi un accesso agli approvvigionamenti energetici.

Se il conflitto libico ci ha insegnato qualcosa è che buona parte della nostra indipendenza energetica come paese dipende infatti dalla pressione geopolitica che siamo in grado di esercitare in Nord Africa. È difficile trattare argomenti simili senza passare per un nostalgico del vergognoso periodo coloniale, ma la recente entrata in gioco della Turchia di Erdogan nel conflitto libico ha dimostrato la debolezza intrinseca della geopolitica italiana, perfino nei confronti di quella che fu una colonia del Regno d’Italia. Sebbene la situazione si sia risolta con un accordo per un trilaterale Italia – Russia – Turchia viene da chiedersi se questa non si tratti di una vittoria di Pirro che di fatto umilia l’Italia. Il nostro paese è stato infatti per più di un secolo e fino alla caduta di Gheddafi l’interlocutore preferenziale per i contatti tra Libia ed Europa. Dalla caduta del dittatore per la volontà di potenze straniere di assicurarsi il controllo sulle preziosissime risorse libiche, il nostro paese è stato ridotto ad un ruolo marginale, tanto da essere quasi rimasto escluso da ogni discussione inerente il futuro della Libia. Gli annunci trionfanti del ministro Luigi Di Maio sono in realtà un’umiliazione: l’Italia non solo non è stata in grado di imporre nessun potere geopolitico in un paese in conflitto, ma si è addirittura fatta soffiare da sotto il naso la posizione di primo interlocutore da Russia (passi, è una superpotenza) e Turchia.

Erdogan, non ha avuto paura di decidere quasi unilateralmente di inviare truppe fresche per sostenere il primo ministro libico Al-Sarraj contro le milizie del generale Haftar e indubbiamente riuscirà ad imporre un’influenza turca nel paese. Mentre a noi, ça va sans dire, il rischio di perdere il controllo degli approvvigionamenti petroliferi dalla Libia. Questa inattesa ingerenza turca non solo è un’altra conferma dell’incapacità dell’Unione Europea di imporre una qualsivoglia politica estera comune, ma anche sintomo della debolezza geopolitica italiana vista l’incapacità di farci valere perfino con un paese con cui abbiamo sempre avuto un rapporto preferenziale.

L’art. 11 è sacrosanto e la non-belligeranza italiana deve essere preservata a tutti i costi; anche nonostante i nostri avversari in Libia non si pongano problemi nel ricorrere ai loro eserciti per portare avanti i propri interessi nazionali. Tuttavia, viene da chiedersi se quell’indipendenza del paese che, secondo l’art. 11, deve essere garantito anche con mezzi militari non includa anche l’indipendenza energetica visto il cambiato contesto rispetto al ‘47? Se così fosse, ci sarebbe qualcuno disposto a schierare ampie porzioni del nostro esercito in Libia? Probabilmente no (mi auguro). Ma a questo punto, che fine sono destinati a fare i paesi europei se questa UE è incapace di fare gli interessi geopolitici del continente mentre altri attori si fanno beffa della nostra non-belligeranza? Mai come in questi tempi l’Europa è apparsa come un gregge di agnellini circondato da un branco di lupi. È arrivato il momento per l’UE di pensare e agire da superpotenza, altrimenti è destinata ad implodere.

Attualità, Medioriente, Politica

Donald Trump e l’Arte della Guerra

È indubbio che la recente uccisone del generale Qasem Soleimani abbia causato smottamenti considerevoli sullo scacchiere mediorientale e sorpreso buona parte degli analisti. Nessuno sembra infatti avere ancora compreso appieno la ragione dietro questo attacco che, al momento, pare assolutamente scriteriato visti i fragilissimi equilibri di potere nella zona. Al netto della retorica di parte e delle considerazioni morali, è facile notare un alto livello di pigrizia intellettuale nell’opinione pubblica e di alcuni esperti che analizzando l’accaduto si limitano a raffazzonate opinioni “aprioristiche” in base alla fazione che desta più simpatia o affinità. I social media sembrano essersi polarizzati nelle ormai classiche categorie di trumpisti contro anti-trumpisti, imperialisti contro anti-imperialisti, guerrafondai contro pacifisti e via dicendo.

Sebbene sia nella natura umana, è assolutamente disastroso valutare i rapporti tra potenze in medio oriente secondo un semplicistico paradigma binario di buoni contro cattivi, ignorando le sfaccettature che ogni attore porta con sé. Trump è indubbiamente stato fin dalla sua elezione una figura divisiva che polarizza le opinioni, ma pensare che un intervento di questo tipo sia stato programmato ed orchestrato da lui in persona è quantomeno naïve e sintomo di quella pigrizia intellettuale a cui accennavo.

Credo che per cogliere il significato dietro l’uccisione del generale Soleimani sia necessario analizzare l’evento da un punto di vista semantico. Lo stratega militare Sun Tzu nel suo celeberrimo “L’Arte della Guerra” sosteneva che una volta circondato un esercito, un generale avrebbe sempre dovuto lasciare aperte delle vie di fuga per il nemico, che sarebbe altrimenti diventato estremamente pericoloso trovandosi a combattere per la propria vita. Una strategia che, se applicata alla politica odierna, prescriverebbe di lasciare la possibilità ad un avversario sconfitto o comunque in inferiorità di ritirarsi onorevolmente, senza perdere la faccia di fronte al suo popolo.

L’uccisione del generale Soleimani risulta però particolare tanto nella sua ideazione quanto nella sua esecuzione: gli Stati Uniti agendo di sorpresa ed eliminando un individuo di tale livello gerarchico hanno infatti lasciato al regime iraniano solo la rappresaglia come mezzo per salvare la faccia. Inoltre, agendo al di sopra delle leggi internazionali, hanno voluto mandare un messaggio ad amici e nemici: in medio oriente la legge siamo noi. Un concetto che è stato addirittura rafforzato dal tweet di Donald Trump il giorno successivo in merito alla minaccia di distruzione di alcuni siti culturali iraniani in caso di rappresaglia da parte dell’Iran. Non solo un’azione criminale ai sensi della Convenzione dell’Aja ma un attacco alle radici culturali del paese stesso quasi con l’intento di soffocare quella cultura. Ancora una volta, sebbene poi smentito, il messaggio era chiaro: qui comandiamo noi e nessuno su ha modo di punirci.

Insomma non sorprende la rappresaglia della notte scorsa da parte dell’Iran che ha lanciato missili balistici contro postazioni americane in Iraq. La reazione degli Stati Uniti probabilmente non si farà attendere considerate le parole del presidente Trump, anche se al momento l’impressione è che nessuno dei due stati abbia interesse nell’innescare la polveriera mediorientale e di invischiarsi in un conflitto a lungo termine. Tuttavia, per dirla con Sun Tzu, questa escalation si sarebbe potuta evitare se si fosse garantito all’Iran un modo per salvare la faccia dope le svariate sanzioni e l’uccisione del generale Soleimani. A meno che gli americani non sperassero proprio nella rappresaglia per giustificare un infoltimento delle proprie truppe in medio oriente proprio per iniziare un guerra contro l’Iran, ultimo paese in medio oriente non ancora sotto il loro controllo. Ma questo sarebbe l’inizio ti tutta un’altra storia. Una storia destinata a non finire bene.

Attualità, Medioriente, Politica

Donald Trump e l’Arte della Guerra

È indubbio che la recente l’uccisione del generale Qasem Soleimani abbia causato smottamenti considerevoli sullo scacchiere mediorientale e sorpreso buona parte degli analisti. Nessuno sembra infatti avere ancora compreso appieno la ragione dietro questo attacco che, al momento, pare assolutamente scriteriato visti i fragilissimi equilibri di potere nella zona. Al netto della retorica di parte e delle considerazioni morali, è facile notare un alto livello di pigrizia intellettuale nell’opinione pubblica e di alcuni esperti che analizzando l’accaduto si limitano a raffazzonate opinioni “aprioristiche” in base alla fazione che desta più simpatia o affinità. I social media sembrano essersi polarizzati nelle ormai classiche categorie di trumpisti contro anti-trumpisti, imperialisti contro anti-imperialisti, guerrafondai contro pacifisti e via dicendo.

Sebbene sia nella natura umana, è assolutamente disastroso valutare i rapporti tra potenze in medio oriente secondo un semplicistico paradigma binario di buoni contro cattivi, ignorando le sfaccettature che ogni attore porta con sé. Trump è indubbiamente stato fin dalla sua elezione una figura divisiva che polarizza le opinioni, ma pensare che un intervento di questo tipo sia stato programmato ed orchestrato da lui in persona è quantomeno naïve e sintomo di quella pigrizia intellettuale a cui accennavo.

Credo che per cogliere il significato dietro l’uccisione del generale Soleimani sia necessario analizzare l’evento da un punto di vista semantico. Lo stratega militare Sun Tzu nel suo celeberrimo “L’Arte della Guerra” sosteneva che una volta circondato un esercito, un generale avrebbe sempre dovuto lasciare aperte delle vie di fuga per il nemico, che sarebbe altrimenti diventato estremamente pericoloso trovandosi a combattere per la propria vita. Una strategia che, se applicata alla politica odierna, prescriverebbe di lasciare la possibilità ad un avversario sconfitto o comunque in inferiorità di ritirarsi onorevolmente, senza perdere la faccia di fronte al suo popolo.

L’uccisione del generale Soleimani risulta però particolare tanto nella sua ideazione quanto nella sua esecuzione: gli Stati Uniti agendo di sorpresa ed eliminando un individuo di tale livello gerarchico hanno infatti lasciato al regime iraniano solo la rappresaglia come mezzo per salvare la faccia. Inoltre, agendo al di sopra delle leggi internazionali, hanno voluto mandare un messaggio ad amici e nemici: in medio oriente la legge siamo noi. Un concetto che è stato addirittura rafforzato dal tweet di Donald Trump il giorno successivo in merito alla minaccia di distruzione di alcuni siti culturali iraniani in caso di rappresaglia da parte dell’Iran. Non solo un’azione criminale ai sensi della Convenzione dell’Aja ma un attacco alle radici culturali del paese stesso quasi con l’intento di soffocare quella cultura. Ancora una volta, sebbene poi smentito, il messaggio era chiaro: qui comandiamo noi e nessuno su ha modo di punirci.

Insomma non sorprende la rappresaglia della notte scorsa da parte dell’Iran che ha lanciato missili balistici contro postazioni americane in Iraq.

La reazione degli Stati Uniti probabilmente non si farà attendere considerate le parole del presidente Trump, anche se al momento l’impressione è che nessuno dei due stati abbia interesse nell’innescare la polveriera mediorientale e di invischiarsi in un conflitto a lungo termine. Tuttavia, per dirla con Sun Tzu, questa escalation si sarebbe potuta evitare se si fosse garantito all’Iran un modo per salvare la faccia dope le svariate sanzioni e l’uccisione del generale Soleimani. A meno che gli americani non sperassero proprio nella rappresaglia per giustificare un infoltimento delle proprie truppe in medio oriente proprio per iniziare un guerra contro l’Iran, ultimo paese in medio oriente non ancora sotto il loro controllo. Ma questo sarebbe l’inizio ti tutta un’altra storia. Una storia destinata a non finire bene.

Medioriente, Politica, Turchia

Kurdistan: una nuova Bosnia?

“La Turchia deve cessare l’operazione militare in corso. Non funzionerà. E se il piano turco è di stabilire un corridoio di sicurezza, non si aspettino nessun fondo europeo” ha dichiarato il presidente della Commissione Europea Jean-Claude Junker.

Sebbene la portata dell’intervento turco sia ancora poco chiaro, l’obiettivo sembra quello di creare un corridoio di 32 km per 480 km in territorio siriano per creare una zona cuscinetto di protezione tra Turchia e Siria. Zona che sarà successivamente utilizzata per far stabilire almeno un milione dei 3,6 milioni di profughi del conflitto siriano.

Già l’accordo tra Stati Uniti e Turchia dello scorso agosto, che prevedeva appunto l’istituzione di una zona cuscinetto sotto il controllo di un centro operativo coordinato da USA-Turchia, destò le preoccupazioni delle Forze Democratiche Siriane (SDF) – a guida curda – che tuttavia avallarono implicitamente l’accordo rimuovendo dalla zona le armi pesanti. Il cambiamento di strategia militare di Trump, votato a rimuovere le truppe americane dalla zona, ha però spianato la strada un un attacco turco contro le SDF nel nord-est della Siria. Il presidente turco Erdogan infatti vede nell’Unità di Protezione Popolare (YPG) – componente principale delle SDF – un gruppo terrorista collegato al PKK, Partito dei Lavoratori del Kurdistan facente capo ad Abdullah Öcalan figura controversa in carcere dal 1999, che vanta un nutrito gruppo di ammiratori nel nostro paese e che da quattro decenni si batte per i diritti dei curdi.

Non è però una sorpresa la volontà di Erdogan di intraprendere un’azione militare in un’area in cui i curdi e gli alleati arabi e cristiani convivono in un clima stabile. Più che una minaccia militare l’esperimento di autonomia democratica dei curdi siriani nel nord del paese rappresenta una sfida politica per la Turchia. Qualora questo riuscisse a garantire stabilità nella zona, i curdi stessi si troverebbero in posizione di demandare il riconoscimento dei loro diritti e una decentralizzazione dal potere statale siriano. Erdogan vuole assolutamente prevenire questo sviluppo, per paure che le stesse richieste vengano estese anche ai territori curdi entro i confini turchi.

I curdi siriani temono a loro volta che un’azione militare turca sfoci in campagna di pulizia etnica nelle zone lungo il confine, visto che in Siria vivono circa 1.8 milioni di curdi, circa la metà dei quali all’interno della zona cuscinetto proposta dalla Turchia.

Sebbene i curdi abbiano dichiarato di volere difendere le loro terre a tutti i costi le 60,000 unità che sono in grado di mettere in campo sarebbero poca cosa a confronto dell’imponente esercito turco, che per numero di unità è il secondo più grande della NATO. Un’eventuale incursione porterebbe centinaia di migliaia di civili a riversarsi nelle zone sotto controllo SDF più a sud e nel Kurdistan iracheno, andando ad esacerbare i contrasti etnici locali ma soprattutto a provocare un’insurrezione da parte dei curdi in territorio turco (che mai hanno visto Ankara di buon occhio). Inoltre, distrarre le SDF dalla lotta all’ISIS potrebbe portare alla perdita di quanto ottenuto finora e alla fuga dalle prigioni di 11,000 combattenti dello Stato Islamico.

Non è nemmeno da escludere un escalation a livello regionale visto che l’Egitto ha richiesto un incontro delle nazioni facenti parte della Lega Araba sostenendo che quello turco si tratti di “uno sfacciato ed inaccettabile attacco alla sovranità di uno stato arabo amico”. A riprova di ciò anche il portavoce del parlamento iraniano Ali Larijani, secondo fonti della TV iraniana, ha cancellato il suo viaggio in Turchia in programma per i prossimi giorni.

Sebbene contesto e attori siano diversi è difficile non pensare a come la situazione sia paradossalmente simile al conflitto nei Balcani degli anni ’90, un massacro cui grande parte della responsabilità fu attribuibile all’incapacità ed inadeguatezza di Nazioni Unite e Comunità Europea. Oggi come allora le dimostrazioni di forza delle nazioni UE sono risibili rispetto alle mire di Ankara, palesamento di una debolezza intrinseca di un’unione che non riesce ad opporre nessuna resistenza al diktat turco – un paese che addirittura aspira a diventare membro dell’Unione Europea stessa. Pare che questa volta i leader europei si siano mossi più repentinamente nel condannare l’aggressione ma rimane da chiedersi per quanto dovremo essere in balia della volubilità strategica dei nostri alleati oltreoceano invece di imparare a garantire indipendentemente, anche con strumenti militari europei, la pace alle nostre porte?

Medioriente, Politica

E se Trump fosse l’uomo della provvidenza per Siria e Medio Oriente?

Se due mesi fa qualcuno mi avesse detto che un giorno avrei guardato quasi di buon occhio la presidenza Trump sarei sicuramente scoppiato a ridere di gusto. Attenzione, ci tengo a precisare, ho detto quasi. Sicuramente si tratta di un viscido, misogino, razzista, ignorante, fraudolento milionario che, grazie al suo peso mediatico, è stato in grado di risvegliare con altisonanti promesse elettorali gli istinti più bassi di quella fascia meno educata del paese. E lui questo lo sa bene. Ma l’importante era andare al potere.

Lui sa perfettamente che buona parte del suo programma elettorale è irrealizzabile, sa di essersi attirato le antipatie di tutto il mondo moderato e, probabilmente, sa anche di non avere la piu pallida idea di come si governi una nazione. Ma a lui questo non interessa. Lui è solo un volto noto da sbattere in televisione a fare propaganda vista la sua esperienza sul piccolo schermo, la sua abilità nel uscire illeso dagli scandali e la faccia tosta di rispondere con un sorriso spavaldo alle accuse più gravi. Saranno altri a governare per lui ma ci sarà la sua firma sugli atti ufficiali. In fondo anche Barack Obama, che ha studiato legge, è finito ad occuparsi di politica estera senza capirne molto e spesso creando situazioni spiacevoli.

È di oggi la notizia che il presidente americano uscente avrebbe cacciato trentacinque diplomatici russi dagli Stati Uniti e stia preparando altre sanzioni, segrete e non, in risposta al presunto hackeraggio delle elezioni americane da parte di Mosca. Il Cremlino ha inizialmente controbattuto dando ordine di espellere trentacinque rappresentanti americani in concordanza con “principio di reciprocità” nelle relazioni internazionali, ma lo ha poi ritirato dichiarando di non volersi abbassare a questo livello di “diplomazia da cucina“. Mossa tanto inattesa quanto di sublime efficacia dal punto di vista dell’immagine del presidente russo Vladimir Putin, che ora si presenta agli occhi del mondo come unico leader in grado di gestire con responsabilità complesse situazioni internazionali.

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Noi comuni mortali non abbiamo accesso all’intelligence inerente l’hackeraggio quindi ci troviamo costretti a  prendere per buone le accuse di Obama. In fondo gli Stati Uniti sono da sempre i più grandi esperti nel corrompere i risultati di elezioni democratiche in altri paesi. Quindi ipse dixit.

Sebbene la prima domanda sia com’è possibile che nessuno se ne sia accorto accorto prima, la seconda è sicuramente che interesse avrebbe il Cremlino ad alterare il risultato di elezioni democratiche negli Stati Uniti? Viene certo difficile immaginare che Vladimir Putin voglia insediare a Washington un governo fantoccio presieduto dal miliardario Donald Trump. Sarebbe uno smacco incredibile visto che anche in questo gli americani sembrano avere un esperienza non indifferente. L’allievo avrebbe chiaramente superato il maestro.

Come spiego in un altro articolo è ormai evidente che gli interessi europei e statunitensi sono diametralmente opposti a quelli russi per quanto riguarda il conflitto siriano. Vista la necessità europea di diversificare le fonti energetiche, se la Russia, tramite il suo supporto militare ad Assad, riuscisse ad impedire la costruzione dell’oleodotto Qatar-Iraq-Siria si sarebbe assicurata il monopolio sulle forniture a Bruxelles. Gli Stati Uniti, che sembrano ormai aver perso il potere di dettare le regole in Medio Oriente, temono quest’opzione poiché a quel punto l’Europa non avrebbe più interesse a sottostare ai ricatti politici americani affidandosi totalmente a Mosca tanto per le forniture energetiche quanto, potenzialmente, per la protezione militare.

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Trump, che è uomo di business, non teme quest’opzione vista la sua strategia isolazionista. Sembra infatti aver capito che conviene tanto ai russi quanto agli amercani fermare la sanguinosa guerra in Siria e scendere a patti con Vladimir Putin, al fine di assicurarsi una fruttifera collaborazione con Mosca per quanto riguarda le forniture all’Europa.

Il neoeletto presidente sa che la strategia americana di dominio sul Medio Oriente è pericolosissima e destinata a fallire visti gli enormi interessi di Russia e Cina nell’area. Non è un caso infatti che egli abbia di recente cercato di prendere le distanze dalla NATO avendo preso atto dell’incapacità europea di imporre un hard-power (esercito) credibile e l’impossibilità di fare affidamento sul tradizionale soft-power (potere economico) vista la dipendenza energetica dall’oriente.

La strategia Clinton-Obama di proteggere gli insorti siriani per instaurare un governo amico sembra avere fallito tanto da un punto di vista pratico che formale. Aveva ragione Trump (insieme alla maggior parte dei leader mondiali) quando disse che l’idea della signora Clinton di creare una no-fly zone in un territorio sotto il controllo di Assad e pattugliato da aerei russi era follia pura. Il tentativo, chiaramente mirato a proteggere le truppe di terra dei ribelli che non hanno velivoli aerei, avrebbe de facto garantito la possibilita agli americani di abbattere aerei russi e siriani causando una pericolosissima escalation.

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Insomma probabilmente sarà Trump a porre fine ai massacri in Medio Oriente in virtù del suo spirito isolazionista. Tuttavia, per quanto ci riguarda, è tempo che l’Europa si svegli e faccia una mossa per prevenire la sua sopraffazione visto il potenziale indebolimento del contesto NATO. I leader del vecchio continente si trovano davanti alla scelta di stringere alleanze con Mosca (opzione non gradita ai paesi ex-sovietici) oppure finalmente trasformarsi una potenza di hard-power con la creazione di un esercito europeo credibile che possa fungere da deterrente per ogni tentativo di esercitare pressione ai suoi confini. Quest’ultima possibilità non implica il coinvolgimento in nessuna guerra, come molti temono, ma anzi la possibilità di creare proprie sfere di influenza al di fuori della NATO e al tempo stesso scoraggiare mire imperialistiche da oriente e da occidente. Questa possibilità non è più da escludere visto il cambio di rotta dettato da Trump e l’uscita della Gran Bretagna dall’EU, principali oppositori delle creazione di un esercito europeo.

Non è più saggio comportarsi da agnellini in un mondo di lupi. È un’occasione da non perdere.