Politica

Capitol Hill: così muore la Ragione

Nel suo “La Società aperta e i suoi Nemici” Karl Popper sosteneva che le teorie della cospirazione sono il risultato della secolarizzazione religiosa. Il progresso e uno sviluppo basato sul paradigma capitalista hanno ampiamente modificato gli stili di vita tradizionali, lasciando l’essere umano a dover interpretare la realtà senza l’ausilio dei grandi schemi di comprensione del mondo, come appunto la religione. Ed è proprio in questa mancanza di comprensione del mondo che le teorie cospiratorie trovano terreno fertile per riprodursi offrendo una comprensione del mondo estremamente semplificata, così illogica da sembrare più logica della complessissima realtà che ci troviamo a vivere. L’evoluzione della nostra specie è stata costellata di schemi di comprensione quasi fantascientifici per spiegare l’inspiegabile, come il sole che sorge e tramonta perché trainato da un carro o i fulmini attribuiti alla rabbia di Giove. Abbiamo un bisogno innato di comprendere e quando non ci riusciamo allora necessitiamo di spiegazioni che, seppur fantascientifiche, sembrano spiegare l’inspiegabile a cui stiamo assistendo.

Ed è così che funzionano le teorie cospiratorie. Spiegano in maniera infantile quello che altrimenti andrebbe spiegato con studi, teorie e dimostrazioni. Poco importa che le teorie siano palesemente ridicole, c’è chi ci crederà perché sono immediate e non richiedono alcuno sforzo di ricerca. Sono per natura uno strumento pigro e codardo. Non si tratta solo di idiozie da bar, ma vere e proprie lenti d’analisi della realtà, che sopperiscono alla mancanza di strumenti per interpretare un mondo sempre più complesso. Uno studio redatto da Proijen e Jostmann dimostra che un’incomprensione del funzionamento di una struttura di potere facilita l’insorgenza di teorie della cospirazione. Più una di queste strutture agisce con riservatezza, più si ha spazio per fantasticare su teorie bizzarre che, troppo spesso, diventano armi nelle mani di politicanti senza scrupoli che ne approfittano per persuadere le fasce di popolazione meno avvezza al pensiero razionale. Ed è cosi che, nelle mani di tali politicanti, la necessaria riservatezza istituzionale su argomenti sensibili diviene espressione di un “governo criminale” o che “agisce con il favore delle tenebre”. Poco importa quali siano le prove che sostengono tali accuse o quali siano i motivi di determinata riservatezza, l’importante è che le accuse, seppur vuote, siano urlate a gran voce, così da permettere all’emotività di prendere il sopravvento sulla razionalità.

Ma la questione è ben altra: può sopravvivere una democrazia in queste condizioni di rifiuto della razionalità? Nella tradizione dell’Antica Grecia i cittadini dopo essersi documentati con quanta più razionalità possibile erano chiamati ad esprimere il proprio pensiero sulle vicende relative alla polis. Era insomma una democrazia che, per poter funzionare, doveva essere fondata sulla capacità razionale dell’individuo. Ma se questa capacità razionale viene a mancare, allora può sussistere il concetto di democrazia? Se un cittadino rifiuta di prendersi la briga di documentarsi utilizzando un metodo scientifico, è giusto che costui abbia diritto di partecipare alla vita democratica? O è forse un atto di tradimento poiché contribuisce al fallimento della democrazia stessa? Se la democrazia è una valore sacro allora è giusto difenderla da coloro i quali cercano di deturparla per pigrizia, ignoranza o malafede.

Tuttavia, chi si dovrebbe occupare di definire che merita ti partecipare alla vita democratica? Si tratta di un esercizio pericolosissimo, ma una cosa è chiara: così non si può continuare e i fatti di Capitol Hill ne sono la conferma. Sembra ora che una discussione di questo tipo vada affrontata, perché il pericolo che gli individui razionali si trovino alla mercé degli individui irrazionali sembra divenire di giorno in giorno più pressante.

Società

L’Italia ai Tempi del Colera

– L’Italia è fatta, ora dobbiamo fare gli affari nostri – disse Gaspare nel superbo “I Viceré” di De Roberto del 1894. Tristemente, a distanza di più di un secolo, nulla sembra essere cambiato. In un paese in cui il 40% dei votanti sostiene partiti che hanno fatto dell’amor di patria un perno della loro retorica, mai nessuno si sarebbe aspettato di dover assistere alle surreali scene di ieri sera alla stazione di Milano. Superfluo ormai spiegare i motivi di tale fuga e il pericolo che questa rappresenta, ma è vitale prendere coscienza di quanto sia perfetta rappresentazione della miseria umana in cui l’Italia si è ridotta. O forse da cui non è mai uscita, viste la parole di De Roberto.

In un paese in cui esponenti politici di spicco fanno propaganda speculando sull’emergenza pare che ormai rispetto e responsabilità siano solo atteggiamenti da saputelli boriosi, vittime sacrificali deposte all’altare della misera ambizione personale. L’amor di patria diviene strumento politico solo ai fini di combattere un presunto nemico diverso da noi, al netto della sua effettiva esistenza, mentre per noi la patria rimane solo un concetto vetusto estrapolato dalla sceneggiatura di qualche film di guerra americano.

Le fughe improvvisate di ieri sera, contrarie a qualsiasi indicazione degli enti sovrani del paese che diciamo di amare, non è altro che un triste rimando all’iconica scena dei topi che fuggono dalla nave che affonda. Badate bene che non si tratta di una semplice fuga dal coronavirus, bensì di una fuga dal proprio dovere morale di cittadino. È un estremo atto di egoismo da parte di chi è disposto a mettere in ginocchio l’intera Italia piuttosto che accettare di buon grado un temporaneo confino precauzionale. È l’apoteosi dell’individualismo e della pochezza morale di chi italiano si sente solo quando c’è da sentirsi superiori a chi italiano non lo è. È un soldato che rompendo le righe non solo abbandona i suoi compagni alla mercé del nemico, ma anzi condanna alla rovina il paese per cui combatte. È il lascito di secoli di guerre fratricide, non ancora sepolto dai 159 anni di unità d’Italia. È la mentalità di Gaspare de “I Viceré. È l’umiliante prova che oggi come allora avevano ragione quelli che – citando il nostro inno – ci umiliavano perché “non siam popolo”. È l’essere fratelli quando c’è da succhiare dal seno di mamma Italia, ma nemmeno parenti alla lontana quando c’è da difenderla.

Un giorno quest’epidemia finirà e tutto tornerà come prima, ma ancora una volta avremo perso l’opportunità di dimostrare a noi stessi che non siamo un popolo di vigliacchi e traditori. Ancora una volta siamo riusciti a dimostrare che governare gli italiani non è difficile, ma semplicemente inutile. Nonostante i moltissimi gesti nobili compiuti da tanti in questi tempi difficili, ancora una volta abbiamo dimostrato che ci sarà sempre chi è pronto ad abbandonare la nave non appena comincia la burrasca. Ancora una volta abbiamo dimostrato che per noi il senso civico è un concetto esotico. Ancora una volta abbiamo rinunciato a dimostrare di saper essere fratelli italiani in tutto e per tutto, nonostante tutto.

Ma in fondo poco importa perché anche questa volta ci laveremo delle nostre colpe additando l’immigrato o l’UE di turno, senza mai trovare il coraggio di guardarci allo specchio. -Uniti, per Dio, chi vincer ci può?- scriveva Mameli. Pare abbiamo trovato una risposta: noi. Anche questa volta, il nostro più grande nemico siamo stati noi stessi. E anche questa volta, siamo riusciti a sconfiggerci.

Politica

Libia: Articolo 11 e la Sconfitta Geopolitica Italiana

“L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.”

Bellissimo e sacrosanto. L’art. 11 è uno degli articoli più importanti della costituzione repubblicana ed evidenzia le aspirazioni pacifiste dei padri costituenti immediatamente dopo la fine della seconda guerra mondiale. La terribile esperienza degli scontri e la lungimiranza dei legislatori nel periodo immediatamente successivo hanno portato ad uno dei più lunghi periodi di pace e prosperità nello stivale italico e, per estensione, in Europa.

Lo stesso articolo indica infatti che la via maestra per il conseguimento di pace e giustizia nei rapporti internazionali è la creazione di organizzazioni capaci anche di limitare la libertà di azione dello stato. A patto, chiaramente, che tutti gli stati partecipanti garantiscano a queste istituzioni sovranazionali determinati poteri e che tutti gli stati vi coesistano in condizioni di uguaglianza. Il desiderio di pace tra paesi era e, si spera, è cosi forte da superare ogni sovranismo e porta i governi nazionali a rinunciare a parte del loro potere per assicurare protezione e stabilità ai loro popoli. Perché sì, i biechi sovranismi sono una minaccia ai popoli, non ai politici che li sventolano a fini propagandistici per accaparrarsi qualche voto.

Dobbiamo tuttavia tenere presente anche che l’art. 11 riserva il potere di intraprendere azioni belliche per legittima difesa nell’intento di respingere un attacco armato che metta in pericolo l’esistenza e l’indipendenza dello Stato (interpretazione suffragata dal combinato disposto degli art. 11, 78, 87 e 52 Cost). Questo concetto di difesa da un’invasione risulta però quantomeno anacronistico nell’Europa moderna, dove i confini tra stati sono ben definiti e sussistono organi forti preposti alla soluzione di controversie internazionali.

La costituzione repubblicana del ‘47 non poteva prevedere che l’ordine dei conflitti tra stati (almeno in quello che definiamo primo mondo) si sarebbe spostato sul livello di proxy war – guerra per procura. E soprattutto, che nella maggior parte dei casi il casus belli di un conflitto non sarebbe stata un’invasione ma la necessità di imporre forza geopolitica al fine di assicurarsi un accesso agli approvvigionamenti energetici.

Se il conflitto libico ci ha insegnato qualcosa è che buona parte della nostra indipendenza energetica come paese dipende infatti dalla pressione geopolitica che siamo in grado di esercitare in Nord Africa. È difficile trattare argomenti simili senza passare per un nostalgico del vergognoso periodo coloniale, ma la recente entrata in gioco della Turchia di Erdogan nel conflitto libico ha dimostrato la debolezza intrinseca della geopolitica italiana, perfino nei confronti di quella che fu una colonia del Regno d’Italia. Sebbene la situazione si sia risolta con un accordo per un trilaterale Italia – Russia – Turchia viene da chiedersi se questa non si tratti di una vittoria di Pirro che di fatto umilia l’Italia. Il nostro paese è stato infatti per più di un secolo e fino alla caduta di Gheddafi l’interlocutore preferenziale per i contatti tra Libia ed Europa. Dalla caduta del dittatore per la volontà di potenze straniere di assicurarsi il controllo sulle preziosissime risorse libiche, il nostro paese è stato ridotto ad un ruolo marginale, tanto da essere quasi rimasto escluso da ogni discussione inerente il futuro della Libia. Gli annunci trionfanti del ministro Luigi Di Maio sono in realtà un’umiliazione: l’Italia non solo non è stata in grado di imporre nessun potere geopolitico in un paese in conflitto, ma si è addirittura fatta soffiare da sotto il naso la posizione di primo interlocutore da Russia (passi, è una superpotenza) e Turchia.

Erdogan, non ha avuto paura di decidere quasi unilateralmente di inviare truppe fresche per sostenere il primo ministro libico Al-Sarraj contro le milizie del generale Haftar e indubbiamente riuscirà ad imporre un’influenza turca nel paese. Mentre a noi, ça va sans dire, il rischio di perdere il controllo degli approvvigionamenti petroliferi dalla Libia. Questa inattesa ingerenza turca non solo è un’altra conferma dell’incapacità dell’Unione Europea di imporre una qualsivoglia politica estera comune, ma anche sintomo della debolezza geopolitica italiana vista l’incapacità di farci valere perfino con un paese con cui abbiamo sempre avuto un rapporto preferenziale.

L’art. 11 è sacrosanto e la non-belligeranza italiana deve essere preservata a tutti i costi; anche nonostante i nostri avversari in Libia non si pongano problemi nel ricorrere ai loro eserciti per portare avanti i propri interessi nazionali. Tuttavia, viene da chiedersi se quell’indipendenza del paese che, secondo l’art. 11, deve essere garantito anche con mezzi militari non includa anche l’indipendenza energetica visto il cambiato contesto rispetto al ‘47? Se così fosse, ci sarebbe qualcuno disposto a schierare ampie porzioni del nostro esercito in Libia? Probabilmente no (mi auguro). Ma a questo punto, che fine sono destinati a fare i paesi europei se questa UE è incapace di fare gli interessi geopolitici del continente mentre altri attori si fanno beffa della nostra non-belligeranza? Mai come in questi tempi l’Europa è apparsa come un gregge di agnellini circondato da un branco di lupi. È arrivato il momento per l’UE di pensare e agire da superpotenza, altrimenti è destinata ad implodere.

Attualità, Medioriente, Politica

Donald Trump e l’Arte della Guerra

È indubbio che la recente uccisone del generale Qasem Soleimani abbia causato smottamenti considerevoli sullo scacchiere mediorientale e sorpreso buona parte degli analisti. Nessuno sembra infatti avere ancora compreso appieno la ragione dietro questo attacco che, al momento, pare assolutamente scriteriato visti i fragilissimi equilibri di potere nella zona. Al netto della retorica di parte e delle considerazioni morali, è facile notare un alto livello di pigrizia intellettuale nell’opinione pubblica e di alcuni esperti che analizzando l’accaduto si limitano a raffazzonate opinioni “aprioristiche” in base alla fazione che desta più simpatia o affinità. I social media sembrano essersi polarizzati nelle ormai classiche categorie di trumpisti contro anti-trumpisti, imperialisti contro anti-imperialisti, guerrafondai contro pacifisti e via dicendo.

Sebbene sia nella natura umana, è assolutamente disastroso valutare i rapporti tra potenze in medio oriente secondo un semplicistico paradigma binario di buoni contro cattivi, ignorando le sfaccettature che ogni attore porta con sé. Trump è indubbiamente stato fin dalla sua elezione una figura divisiva che polarizza le opinioni, ma pensare che un intervento di questo tipo sia stato programmato ed orchestrato da lui in persona è quantomeno naïve e sintomo di quella pigrizia intellettuale a cui accennavo.

Credo che per cogliere il significato dietro l’uccisione del generale Soleimani sia necessario analizzare l’evento da un punto di vista semantico. Lo stratega militare Sun Tzu nel suo celeberrimo “L’Arte della Guerra” sosteneva che una volta circondato un esercito, un generale avrebbe sempre dovuto lasciare aperte delle vie di fuga per il nemico, che sarebbe altrimenti diventato estremamente pericoloso trovandosi a combattere per la propria vita. Una strategia che, se applicata alla politica odierna, prescriverebbe di lasciare la possibilità ad un avversario sconfitto o comunque in inferiorità di ritirarsi onorevolmente, senza perdere la faccia di fronte al suo popolo.

L’uccisione del generale Soleimani risulta però particolare tanto nella sua ideazione quanto nella sua esecuzione: gli Stati Uniti agendo di sorpresa ed eliminando un individuo di tale livello gerarchico hanno infatti lasciato al regime iraniano solo la rappresaglia come mezzo per salvare la faccia. Inoltre, agendo al di sopra delle leggi internazionali, hanno voluto mandare un messaggio ad amici e nemici: in medio oriente la legge siamo noi. Un concetto che è stato addirittura rafforzato dal tweet di Donald Trump il giorno successivo in merito alla minaccia di distruzione di alcuni siti culturali iraniani in caso di rappresaglia da parte dell’Iran. Non solo un’azione criminale ai sensi della Convenzione dell’Aja ma un attacco alle radici culturali del paese stesso quasi con l’intento di soffocare quella cultura. Ancora una volta, sebbene poi smentito, il messaggio era chiaro: qui comandiamo noi e nessuno su ha modo di punirci.

Insomma non sorprende la rappresaglia della notte scorsa da parte dell’Iran che ha lanciato missili balistici contro postazioni americane in Iraq. La reazione degli Stati Uniti probabilmente non si farà attendere considerate le parole del presidente Trump, anche se al momento l’impressione è che nessuno dei due stati abbia interesse nell’innescare la polveriera mediorientale e di invischiarsi in un conflitto a lungo termine. Tuttavia, per dirla con Sun Tzu, questa escalation si sarebbe potuta evitare se si fosse garantito all’Iran un modo per salvare la faccia dope le svariate sanzioni e l’uccisione del generale Soleimani. A meno che gli americani non sperassero proprio nella rappresaglia per giustificare un infoltimento delle proprie truppe in medio oriente proprio per iniziare un guerra contro l’Iran, ultimo paese in medio oriente non ancora sotto il loro controllo. Ma questo sarebbe l’inizio ti tutta un’altra storia. Una storia destinata a non finire bene.

Attualità, Medioriente, Politica

Donald Trump e l’Arte della Guerra

È indubbio che la recente l’uccisione del generale Qasem Soleimani abbia causato smottamenti considerevoli sullo scacchiere mediorientale e sorpreso buona parte degli analisti. Nessuno sembra infatti avere ancora compreso appieno la ragione dietro questo attacco che, al momento, pare assolutamente scriteriato visti i fragilissimi equilibri di potere nella zona. Al netto della retorica di parte e delle considerazioni morali, è facile notare un alto livello di pigrizia intellettuale nell’opinione pubblica e di alcuni esperti che analizzando l’accaduto si limitano a raffazzonate opinioni “aprioristiche” in base alla fazione che desta più simpatia o affinità. I social media sembrano essersi polarizzati nelle ormai classiche categorie di trumpisti contro anti-trumpisti, imperialisti contro anti-imperialisti, guerrafondai contro pacifisti e via dicendo.

Sebbene sia nella natura umana, è assolutamente disastroso valutare i rapporti tra potenze in medio oriente secondo un semplicistico paradigma binario di buoni contro cattivi, ignorando le sfaccettature che ogni attore porta con sé. Trump è indubbiamente stato fin dalla sua elezione una figura divisiva che polarizza le opinioni, ma pensare che un intervento di questo tipo sia stato programmato ed orchestrato da lui in persona è quantomeno naïve e sintomo di quella pigrizia intellettuale a cui accennavo.

Credo che per cogliere il significato dietro l’uccisione del generale Soleimani sia necessario analizzare l’evento da un punto di vista semantico. Lo stratega militare Sun Tzu nel suo celeberrimo “L’Arte della Guerra” sosteneva che una volta circondato un esercito, un generale avrebbe sempre dovuto lasciare aperte delle vie di fuga per il nemico, che sarebbe altrimenti diventato estremamente pericoloso trovandosi a combattere per la propria vita. Una strategia che, se applicata alla politica odierna, prescriverebbe di lasciare la possibilità ad un avversario sconfitto o comunque in inferiorità di ritirarsi onorevolmente, senza perdere la faccia di fronte al suo popolo.

L’uccisione del generale Soleimani risulta però particolare tanto nella sua ideazione quanto nella sua esecuzione: gli Stati Uniti agendo di sorpresa ed eliminando un individuo di tale livello gerarchico hanno infatti lasciato al regime iraniano solo la rappresaglia come mezzo per salvare la faccia. Inoltre, agendo al di sopra delle leggi internazionali, hanno voluto mandare un messaggio ad amici e nemici: in medio oriente la legge siamo noi. Un concetto che è stato addirittura rafforzato dal tweet di Donald Trump il giorno successivo in merito alla minaccia di distruzione di alcuni siti culturali iraniani in caso di rappresaglia da parte dell’Iran. Non solo un’azione criminale ai sensi della Convenzione dell’Aja ma un attacco alle radici culturali del paese stesso quasi con l’intento di soffocare quella cultura. Ancora una volta, sebbene poi smentito, il messaggio era chiaro: qui comandiamo noi e nessuno su ha modo di punirci.

Insomma non sorprende la rappresaglia della notte scorsa da parte dell’Iran che ha lanciato missili balistici contro postazioni americane in Iraq.

La reazione degli Stati Uniti probabilmente non si farà attendere considerate le parole del presidente Trump, anche se al momento l’impressione è che nessuno dei due stati abbia interesse nell’innescare la polveriera mediorientale e di invischiarsi in un conflitto a lungo termine. Tuttavia, per dirla con Sun Tzu, questa escalation si sarebbe potuta evitare se si fosse garantito all’Iran un modo per salvare la faccia dope le svariate sanzioni e l’uccisione del generale Soleimani. A meno che gli americani non sperassero proprio nella rappresaglia per giustificare un infoltimento delle proprie truppe in medio oriente proprio per iniziare un guerra contro l’Iran, ultimo paese in medio oriente non ancora sotto il loro controllo. Ma questo sarebbe l’inizio ti tutta un’altra storia. Una storia destinata a non finire bene.

brexit, fascismo, Politica, regno unito, Società

Brexit e la nostalgia del Ventennio

Vivendo all’estero da anni mi capita spesso di tornare e ritrovare il nostro Paese come l’avevo lasciato o, almeno, come lo ricordavo. Si tratta di un’immobilità che se da un lato rincuora, dall’altro affligge, perché implicitamente annienta ogni possibilità di ritorno per chi, come me, si è abituato a vivere in ambienti in cui il cambiamento è l’unica costante nella corsa verso il miglioramento.

Guardando un po’ di televisione ho avuto modo di fare caso a un elemento che si ripresenta in ogni mio temporaneo soggiorno in Italia: il fascismo. Subconsciamente sapevo che accendendo la tv, poco dopo mezzogiorno avrei trovato qualche intellettuale (o non) intento a raccontare la storia di Benito Mussolini o a commentare qualche granuloso video dell’Istituto Luce.

L’immagine del Duce sembra essere diventata garanzia di successo per i palinsesti televisivi, ma soprattutto un’incarnazione dei pensieri e dei sogni proibiti degli italiani. Lo spettatore si trova catapultato nell’involontaria glorificazione di quello che fu l’ultimo impero nato sul suolo italico: un’immagine che non è facile rigettare se manca una visione d’insieme che esponga l’anacronismo del messaggio politico del tempo. Un modo, forse, di fantasticare su un passato in cui “i treni arrivavano in orario” al fine di non prendersi responsabilità per un presente non radioso.

“Io non ho creato il fascismo, l’ho tratto dall’inconscio degli italiani” diceva Mussolini e, paradossalmente, la storia sembra avergli dato ragione. Il subconscio collettivo da sempre riporta la memoria alla gloria degli imperi del passato, contrapponendola a una modernità che – esaurito ilboom economico – ha lasciato deluse molte zone e fasce sociali del Paese.

Si potrebbe forzare un parallelismo tra questo fenomeno di regressione cronologico-culturale con il meccanismo di autodifesa psicologico che ha portato alla per ora fallimentare Brexit. Il conduttore radiofonico britannico James O’Brien in una delle sue trasmissioni spiegava di avere capito – ma non condiviso – le ragioni dei Brexiteer dopo una visita a Southend-on-Sea, una città di mare britannica. Argomentava di avere notato meravigliosi edifici vittoriani che, corrosi dalla brezza marina, nessun governo si prende la briga di mantenere nelle condizioni in cui meritano. Un’immagine molto forte che diviene metafora del decadimento di un glorioso impero, ad opera di quel mare che in passato aveva portato ricchezze e conquiste. Ora quello stesso mare, nella retorica propagandistica dei Leave, è divenuto il luogo da cui arrivano immigrati e speculatori che minano la qualità della vita che fu della vecchia Gran Bretagna. È noto, infatti, che siano state le località più remote e impoverite del regno a votare per l’uscita dall’Ue e non Londra che, anche grazie a quei quadri normativi Ue che hanno facilitato gli scambi, è divenuta de facto il centro finanziario d’Europa.

È difficile non riscontrare una somiglianza con quanto sta accadendo in Italia, Paese in cui esiste una capitale politica in piena crisi morale, dove spopolano i movimenti di ispirazione fascista e una capitale economica che fa di tutto per mostrarsi al mondo come europea, liberale e liberista. Il decadimento morale e sociale della città di Roma stride con la grandezza degli imperi che in essa trovarono la loro capitale: non sorprende quindi che certi movimenti trovino terreno fertile in una metropoli che ogni giorno si trova a doversi confrontare con il suo passato. Situazione opposta e antitetica invece a quella di Milano, dove si è fatto patrimonio di quell’apertura verso il mondo che ha portato la città a rifarsi il trucco per attirare sempre più capitali, turisti e studenti che saranno i leader del futuro.

In questa Italia che sembra avere perso la rotta e non riesce più a capirsi vale forse ricordare le parole di Winston Churchill: “Di questo sono sicuro. Se apriamo una lite tra il presente e il passato, rischiamo di perdere il futuro”.

brexit, Politica, regno unito, Società

Le responsabilità Tory nel rogo di Londra

Ancora non è stato ultimato il conto delle vittime del terribile rogo di Londra in cui molte persone hanno perso la vita e molte, tra cui due connazionali, sono ancora dispersi. Al momento, stando ai resoconti della BBC, i vigili del fuoco stanno utilizzando cani e droni per cercare superstiti nei piani piu alti dell’edificio, che sono ancora troppo instabili per potervi accedere con uomini e mezzi.

Sebbene non sia ancora del tutto chiara la dinamica dell’accaduto, pare che si tratti di una tragedia che poteva essere evitata e per cui qualcuno dovrà pagare. Almeno è questo il grido di disperazione dei residenti sopravvissuti al rogo e di tutta la popolazione tanto della zona circostante l’edificio quanto di tutta la capitale. “Certo, i soldi non riporteranno indietro un fratello morto, ma quanto può essere fatto con il denaro, deve assolutamente essere fatto” ha dichiarato Jolyon Maugham, l’avvocato britannico che si è offerto di iniziare a titolo gratuito una causa contro il governo per ottenere un risarcimento dignitoso per coloro che hanno perso tutto.

La prima ministra Theresa May, si è presentata ieri sul luogo dell’accaduto ed è stata ampiamente criticata per non avere acconsentito ad incontrare i sopravvissuti, cosa che invece ha fatto il leader laburista Jeremy Corbyn il cui consenso nei sondaggi è in costante crescita. La volontà è stata probabilmente quella di evitare ogni dimostrazione di dissenso pubblico che vede nelle politiche del suo partito la responsabilità dell’accaduto. Infatti i conservatori, notoriamente in passato proprietari terrieri e ora investitori immobiliari, da sempre promuovono la liberalizzazione più totale del mercato degli affitti e delle costruzioni, cercando di ridurre il più possibile i vincoli per assicurare l’abitabilità e la sicurezza delle proprietà al fine di ridurre i costi per i costruttori.

L’edificio era stato sottoposto ad un rimodernamento costato 8,7 milioni di sterline per mettere in sicurezza gli appartamenti, ma pare che in proporzione si sia speso di più per ricoprire l’esterno dell’edificio con materiali di rivestimento dalle dubbie qualità ignifughe, al solo fine di rendere più gradevole l’aspetto esterno di un palazzo vecchio e abitato dalla fasce più deboli della popolazione. Si trattava infatti di un edificio in buona parte dedicato al “social housing”, concetto simile alle nostre case popolari, la cui estetica degradata andava ad influire negativamente sull’appetibilità dell’area e sul valore delle ricche e sontuose proprietà circostanti.

Brandon Lewis, ex-ministro conservatore responsabile delle misure di prevenzione degli incendi ora ministro dell’immigrazione, aveva rifiutato di inserire nel decreto di legislazione per la messa in sicurezza degli edifici la necessità di installare irrigatori antincendio in quanto questo avrebbe fatto lievitare i costi per i costruttori, notoriamente in ottimi rapporti con i governi Tory. Secondo gli esperti questa misura di sicurezza non avrebbe impedito all’edificio di bruciare, visto che il fuoco si è diffuso tramite il rivestimento esterno dell’edificio, ma avrebbe garantito la praticabilità dell’unica scala dell’edificio (altra anomalia costruttiva per un edificio di 24 piani) e avrebbe contribuito a salvare molte vite. Inoltre, Jacob Rees-Moog, parlamentare conservatore fervente pro-Brexit e investitore immobiliare, da tempo spinge per cancellare le normative che richiedano l’installazione di allarmi antincendio nelle abitazioni e di eliminare ogni vincolo legale per garantire l’abitabilità degli edifici.

In vista di questo disastro molti elettori tradizionalmente conservatori stanno esprimendo il loro dissenso e disapprovazione per l’attuale governo e minacciano di spostare il loro voto altrove se non verrano prese misure giuste nei confronti dei responsabili. Perfino la Gran Bretagna, paese che ha dato i natali ad Adam Smith, si sta indignando di fronte a tanta avidità.

Politica

Theresa May e il Grande Bluff

Non credetemi. Sicuramente sbaglio. Oltremanica, si sa, i magheggi di palazzo non sono all’ordine del giorno ma sono anzi spesso visti con disprezzo tanto dall’opinione pubblica quanto dalla corona. La grande tradizione democratica del paese implicitamente impedisce di avere qualsiasi sospetto, ma sono sicuro di non essere l’unico ad avere pensato al seguente scenario: e se il recente discorso di Theresa May fosse una grande farsa per far fallire la Brexit e permettere al partito conservatore di assicurarsi la supremazia più totale alle prossime elezioni?

Già più di tre mesi fa, stando alle informazioni trapelate e pubblicate dal Guardian, la prima ministra aveva espresso a ufficiali della Goldman Sachs le sue preoccupazioni riguardo l’uscita del Regno Unito dal mercato unico. Sebbene intenzionata a mettere un freno all’immigrazione, sembrava essersi avviata verso una soft-Brexit al fine di cercare di mantenere in qualche modo quella stabilità economica che l’Unione Europea assicura. Voleva tentare di rimanere nel mercato unico e allo stesso tempo assicurarsi un controllo nazionale sui flussi migratori intercomunitari. Idea a cui i leader europei hanno subito risposto picche in quanto l’accesso al mercato unico è possibile solo ove si accettino tutti i quattro pilastri fondamentali dell’UE, tra cui la libera circolazione delle persone.

Tuttavia, questo rifiuto da parte dell’Europa non implicava la necessità di proporre direttamente un’uscita dura e netta dall’Unione, che è destabilizzante tanto per l’Europa quanto per il Regno Unito. Una scelta bizzarra se si considera la storica capacità di negoziazione britannica in materia di relazioni internazionali ed il loro peso politico ed economico. Essi avrebbero potuto farsi valere in altri modi e adottare un approccio più morbido sulla questione ma hanno deciso di non farlo. Perché? Pare inverosimile l’ipotesi del fallo di reazione nei confronti dei leader europei che hanno snobbato le proposte della signora May. C’è sicuramente del metodo nella follia.

brexit

Immaginiamo per un momento che il governo abbia preso atto del fatto che l’elettorato britannico, dopo aver votato su una questione così importante, si sia reso conto di aver fondato la propria opinione su un’ infinità di bugie portate avanti dal fronte Leave. Immaginiamo che ci sia stato un grosso cambio di opinione di massa ed ora, come riporta l’Independent, i sostenitori del fronte Stay siano la maggioranza. Immaginiamo che la Scozia voglia indire un nuovo referendum per la sua indipendenza al fine di abbandonare il Regno Unito e rimanere in UE. Immaginiamo anche che i politici che hanno supportato la Brexit solo per assicurarsi visibilità e un posto in parlamento nelle prossime elezioni si siano resi conto dell’errore. Come uscirne ora? Semplice, hard-Brexit.

Ogni modesto giocatore di poker sa perfettamente che l’unico modo per uscire da un bluff è rilanciare sempre più in alto. Dopo aver chiarito che l’articolo 50 può essere innescato solo tramite approvazione del parlamento e non per prerogativa reale, la prima ministra ha deciso di volersi avviare verso una hard-Brexit, sgradita tanto al parlamento quanto alla maggioranza del pubblico. La May ha anche aumentato la posta in palio tramite la velata minaccia di potere trasformare il Regno Unito in una sorta di paradiso low-tax per potere competere con l’UE in una potenziale guerra commerciale. Questo ha ovviamente provocato la reazione furiosa del fragile partito laburista che guarda con sospetto ogni mossa dei conservatori mirata a spostare il paese verso la deregolamentazione del mercato del lavoro e dell’economia. Il malcontento è però percepibile anche tra i conservatori stessi e i numeri ci sono perché un’inusuale alleanza tra questi e i laburisti di Corbyn NON approvi in parlamento l’uscita dall’UE. Qualora questo accadesse la May e i supporter del fronte Leave potrebbero gridare al complotto, accusare l’establishment (tanto per cambiare) e assicurarsi percentuali bulgare alle prossime elezioni, grazie anche al supporto del pubblico laburista anti-UE che si sentirebbe tradito dal proprio partito. Insomma ne uscirebbero vincitori.

Probabilmente troppo machiavellico per il paese di Sua Maestà, ma negli ultimi anni la politica ci ha reso avvezzi agli scenari più inverosimili. Non succede, ma se succede…

Medioriente, Politica

E se Trump fosse l’uomo della provvidenza per Siria e Medio Oriente?

Se due mesi fa qualcuno mi avesse detto che un giorno avrei guardato quasi di buon occhio la presidenza Trump sarei sicuramente scoppiato a ridere di gusto. Attenzione, ci tengo a precisare, ho detto quasi. Sicuramente si tratta di un viscido, misogino, razzista, ignorante, fraudolento milionario che, grazie al suo peso mediatico, è stato in grado di risvegliare con altisonanti promesse elettorali gli istinti più bassi di quella fascia meno educata del paese. E lui questo lo sa bene. Ma l’importante era andare al potere.

Lui sa perfettamente che buona parte del suo programma elettorale è irrealizzabile, sa di essersi attirato le antipatie di tutto il mondo moderato e, probabilmente, sa anche di non avere la piu pallida idea di come si governi una nazione. Ma a lui questo non interessa. Lui è solo un volto noto da sbattere in televisione a fare propaganda vista la sua esperienza sul piccolo schermo, la sua abilità nel uscire illeso dagli scandali e la faccia tosta di rispondere con un sorriso spavaldo alle accuse più gravi. Saranno altri a governare per lui ma ci sarà la sua firma sugli atti ufficiali. In fondo anche Barack Obama, che ha studiato legge, è finito ad occuparsi di politica estera senza capirne molto e spesso creando situazioni spiacevoli.

È di oggi la notizia che il presidente americano uscente avrebbe cacciato trentacinque diplomatici russi dagli Stati Uniti e stia preparando altre sanzioni, segrete e non, in risposta al presunto hackeraggio delle elezioni americane da parte di Mosca. Il Cremlino ha inizialmente controbattuto dando ordine di espellere trentacinque rappresentanti americani in concordanza con “principio di reciprocità” nelle relazioni internazionali, ma lo ha poi ritirato dichiarando di non volersi abbassare a questo livello di “diplomazia da cucina“. Mossa tanto inattesa quanto di sublime efficacia dal punto di vista dell’immagine del presidente russo Vladimir Putin, che ora si presenta agli occhi del mondo come unico leader in grado di gestire con responsabilità complesse situazioni internazionali.

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Noi comuni mortali non abbiamo accesso all’intelligence inerente l’hackeraggio quindi ci troviamo costretti a  prendere per buone le accuse di Obama. In fondo gli Stati Uniti sono da sempre i più grandi esperti nel corrompere i risultati di elezioni democratiche in altri paesi. Quindi ipse dixit.

Sebbene la prima domanda sia com’è possibile che nessuno se ne sia accorto accorto prima, la seconda è sicuramente che interesse avrebbe il Cremlino ad alterare il risultato di elezioni democratiche negli Stati Uniti? Viene certo difficile immaginare che Vladimir Putin voglia insediare a Washington un governo fantoccio presieduto dal miliardario Donald Trump. Sarebbe uno smacco incredibile visto che anche in questo gli americani sembrano avere un esperienza non indifferente. L’allievo avrebbe chiaramente superato il maestro.

Come spiego in un altro articolo è ormai evidente che gli interessi europei e statunitensi sono diametralmente opposti a quelli russi per quanto riguarda il conflitto siriano. Vista la necessità europea di diversificare le fonti energetiche, se la Russia, tramite il suo supporto militare ad Assad, riuscisse ad impedire la costruzione dell’oleodotto Qatar-Iraq-Siria si sarebbe assicurata il monopolio sulle forniture a Bruxelles. Gli Stati Uniti, che sembrano ormai aver perso il potere di dettare le regole in Medio Oriente, temono quest’opzione poiché a quel punto l’Europa non avrebbe più interesse a sottostare ai ricatti politici americani affidandosi totalmente a Mosca tanto per le forniture energetiche quanto, potenzialmente, per la protezione militare.

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Trump, che è uomo di business, non teme quest’opzione vista la sua strategia isolazionista. Sembra infatti aver capito che conviene tanto ai russi quanto agli amercani fermare la sanguinosa guerra in Siria e scendere a patti con Vladimir Putin, al fine di assicurarsi una fruttifera collaborazione con Mosca per quanto riguarda le forniture all’Europa.

Il neoeletto presidente sa che la strategia americana di dominio sul Medio Oriente è pericolosissima e destinata a fallire visti gli enormi interessi di Russia e Cina nell’area. Non è un caso infatti che egli abbia di recente cercato di prendere le distanze dalla NATO avendo preso atto dell’incapacità europea di imporre un hard-power (esercito) credibile e l’impossibilità di fare affidamento sul tradizionale soft-power (potere economico) vista la dipendenza energetica dall’oriente.

La strategia Clinton-Obama di proteggere gli insorti siriani per instaurare un governo amico sembra avere fallito tanto da un punto di vista pratico che formale. Aveva ragione Trump (insieme alla maggior parte dei leader mondiali) quando disse che l’idea della signora Clinton di creare una no-fly zone in un territorio sotto il controllo di Assad e pattugliato da aerei russi era follia pura. Il tentativo, chiaramente mirato a proteggere le truppe di terra dei ribelli che non hanno velivoli aerei, avrebbe de facto garantito la possibilita agli americani di abbattere aerei russi e siriani causando una pericolosissima escalation.

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Insomma probabilmente sarà Trump a porre fine ai massacri in Medio Oriente in virtù del suo spirito isolazionista. Tuttavia, per quanto ci riguarda, è tempo che l’Europa si svegli e faccia una mossa per prevenire la sua sopraffazione visto il potenziale indebolimento del contesto NATO. I leader del vecchio continente si trovano davanti alla scelta di stringere alleanze con Mosca (opzione non gradita ai paesi ex-sovietici) oppure finalmente trasformarsi una potenza di hard-power con la creazione di un esercito europeo credibile che possa fungere da deterrente per ogni tentativo di esercitare pressione ai suoi confini. Quest’ultima possibilità non implica il coinvolgimento in nessuna guerra, come molti temono, ma anzi la possibilità di creare proprie sfere di influenza al di fuori della NATO e al tempo stesso scoraggiare mire imperialistiche da oriente e da occidente. Questa possibilità non è più da escludere visto il cambio di rotta dettato da Trump e l’uscita della Gran Bretagna dall’EU, principali oppositori delle creazione di un esercito europeo.

Non è più saggio comportarsi da agnellini in un mondo di lupi. È un’occasione da non perdere.