Attualità, Medioriente, Politica

Donald Trump e l’Arte della Guerra

È indubbio che la recente uccisone del generale Qasem Soleimani abbia causato smottamenti considerevoli sullo scacchiere mediorientale e sorpreso buona parte degli analisti. Nessuno sembra infatti avere ancora compreso appieno la ragione dietro questo attacco che, al momento, pare assolutamente scriteriato visti i fragilissimi equilibri di potere nella zona. Al netto della retorica di parte e delle considerazioni morali, è facile notare un alto livello di pigrizia intellettuale nell’opinione pubblica e di alcuni esperti che analizzando l’accaduto si limitano a raffazzonate opinioni “aprioristiche” in base alla fazione che desta più simpatia o affinità. I social media sembrano essersi polarizzati nelle ormai classiche categorie di trumpisti contro anti-trumpisti, imperialisti contro anti-imperialisti, guerrafondai contro pacifisti e via dicendo.

Sebbene sia nella natura umana, è assolutamente disastroso valutare i rapporti tra potenze in medio oriente secondo un semplicistico paradigma binario di buoni contro cattivi, ignorando le sfaccettature che ogni attore porta con sé. Trump è indubbiamente stato fin dalla sua elezione una figura divisiva che polarizza le opinioni, ma pensare che un intervento di questo tipo sia stato programmato ed orchestrato da lui in persona è quantomeno naïve e sintomo di quella pigrizia intellettuale a cui accennavo.

Credo che per cogliere il significato dietro l’uccisione del generale Soleimani sia necessario analizzare l’evento da un punto di vista semantico. Lo stratega militare Sun Tzu nel suo celeberrimo “L’Arte della Guerra” sosteneva che una volta circondato un esercito, un generale avrebbe sempre dovuto lasciare aperte delle vie di fuga per il nemico, che sarebbe altrimenti diventato estremamente pericoloso trovandosi a combattere per la propria vita. Una strategia che, se applicata alla politica odierna, prescriverebbe di lasciare la possibilità ad un avversario sconfitto o comunque in inferiorità di ritirarsi onorevolmente, senza perdere la faccia di fronte al suo popolo.

L’uccisione del generale Soleimani risulta però particolare tanto nella sua ideazione quanto nella sua esecuzione: gli Stati Uniti agendo di sorpresa ed eliminando un individuo di tale livello gerarchico hanno infatti lasciato al regime iraniano solo la rappresaglia come mezzo per salvare la faccia. Inoltre, agendo al di sopra delle leggi internazionali, hanno voluto mandare un messaggio ad amici e nemici: in medio oriente la legge siamo noi. Un concetto che è stato addirittura rafforzato dal tweet di Donald Trump il giorno successivo in merito alla minaccia di distruzione di alcuni siti culturali iraniani in caso di rappresaglia da parte dell’Iran. Non solo un’azione criminale ai sensi della Convenzione dell’Aja ma un attacco alle radici culturali del paese stesso quasi con l’intento di soffocare quella cultura. Ancora una volta, sebbene poi smentito, il messaggio era chiaro: qui comandiamo noi e nessuno su ha modo di punirci.

Insomma non sorprende la rappresaglia della notte scorsa da parte dell’Iran che ha lanciato missili balistici contro postazioni americane in Iraq. La reazione degli Stati Uniti probabilmente non si farà attendere considerate le parole del presidente Trump, anche se al momento l’impressione è che nessuno dei due stati abbia interesse nell’innescare la polveriera mediorientale e di invischiarsi in un conflitto a lungo termine. Tuttavia, per dirla con Sun Tzu, questa escalation si sarebbe potuta evitare se si fosse garantito all’Iran un modo per salvare la faccia dope le svariate sanzioni e l’uccisione del generale Soleimani. A meno che gli americani non sperassero proprio nella rappresaglia per giustificare un infoltimento delle proprie truppe in medio oriente proprio per iniziare un guerra contro l’Iran, ultimo paese in medio oriente non ancora sotto il loro controllo. Ma questo sarebbe l’inizio ti tutta un’altra storia. Una storia destinata a non finire bene.

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Donald Trump e l’Arte della Guerra

È indubbio che la recente l’uccisione del generale Qasem Soleimani abbia causato smottamenti considerevoli sullo scacchiere mediorientale e sorpreso buona parte degli analisti. Nessuno sembra infatti avere ancora compreso appieno la ragione dietro questo attacco che, al momento, pare assolutamente scriteriato visti i fragilissimi equilibri di potere nella zona. Al netto della retorica di parte e delle considerazioni morali, è facile notare un alto livello di pigrizia intellettuale nell’opinione pubblica e di alcuni esperti che analizzando l’accaduto si limitano a raffazzonate opinioni “aprioristiche” in base alla fazione che desta più simpatia o affinità. I social media sembrano essersi polarizzati nelle ormai classiche categorie di trumpisti contro anti-trumpisti, imperialisti contro anti-imperialisti, guerrafondai contro pacifisti e via dicendo.

Sebbene sia nella natura umana, è assolutamente disastroso valutare i rapporti tra potenze in medio oriente secondo un semplicistico paradigma binario di buoni contro cattivi, ignorando le sfaccettature che ogni attore porta con sé. Trump è indubbiamente stato fin dalla sua elezione una figura divisiva che polarizza le opinioni, ma pensare che un intervento di questo tipo sia stato programmato ed orchestrato da lui in persona è quantomeno naïve e sintomo di quella pigrizia intellettuale a cui accennavo.

Credo che per cogliere il significato dietro l’uccisione del generale Soleimani sia necessario analizzare l’evento da un punto di vista semantico. Lo stratega militare Sun Tzu nel suo celeberrimo “L’Arte della Guerra” sosteneva che una volta circondato un esercito, un generale avrebbe sempre dovuto lasciare aperte delle vie di fuga per il nemico, che sarebbe altrimenti diventato estremamente pericoloso trovandosi a combattere per la propria vita. Una strategia che, se applicata alla politica odierna, prescriverebbe di lasciare la possibilità ad un avversario sconfitto o comunque in inferiorità di ritirarsi onorevolmente, senza perdere la faccia di fronte al suo popolo.

L’uccisione del generale Soleimani risulta però particolare tanto nella sua ideazione quanto nella sua esecuzione: gli Stati Uniti agendo di sorpresa ed eliminando un individuo di tale livello gerarchico hanno infatti lasciato al regime iraniano solo la rappresaglia come mezzo per salvare la faccia. Inoltre, agendo al di sopra delle leggi internazionali, hanno voluto mandare un messaggio ad amici e nemici: in medio oriente la legge siamo noi. Un concetto che è stato addirittura rafforzato dal tweet di Donald Trump il giorno successivo in merito alla minaccia di distruzione di alcuni siti culturali iraniani in caso di rappresaglia da parte dell’Iran. Non solo un’azione criminale ai sensi della Convenzione dell’Aja ma un attacco alle radici culturali del paese stesso quasi con l’intento di soffocare quella cultura. Ancora una volta, sebbene poi smentito, il messaggio era chiaro: qui comandiamo noi e nessuno su ha modo di punirci.

Insomma non sorprende la rappresaglia della notte scorsa da parte dell’Iran che ha lanciato missili balistici contro postazioni americane in Iraq.

La reazione degli Stati Uniti probabilmente non si farà attendere considerate le parole del presidente Trump, anche se al momento l’impressione è che nessuno dei due stati abbia interesse nell’innescare la polveriera mediorientale e di invischiarsi in un conflitto a lungo termine. Tuttavia, per dirla con Sun Tzu, questa escalation si sarebbe potuta evitare se si fosse garantito all’Iran un modo per salvare la faccia dope le svariate sanzioni e l’uccisione del generale Soleimani. A meno che gli americani non sperassero proprio nella rappresaglia per giustificare un infoltimento delle proprie truppe in medio oriente proprio per iniziare un guerra contro l’Iran, ultimo paese in medio oriente non ancora sotto il loro controllo. Ma questo sarebbe l’inizio ti tutta un’altra storia. Una storia destinata a non finire bene.

Attualità, Politica, Società

Separazione tra Scuola ed Università: cosa buona e giusta

Ammetto innanzitutto che le materie inerenti il Ministero dell’Istruzione non sono il mio ambito di specializzazione o comunque di diretto interesse. Tuttavia trovo intrigante l’idea del primo ministro Conte e del suo governo di separare scuola ed università in due ministeri distinti.

Avendo fatto in Italia scuole superiori e laurea triennale per poi ottenere una laurea magistrale all’estero mi sono reso conto di alcuni elementi importanti del sistema educativo italiano. Non posso parlare con dati alla mano, anche perché i dati esistenti potrebbero contraddirmi, ma la mia impressione è che il livello di insegnamento delle nostre università e la preparazione dei nostri studenti tendano ad essere superiore a quello ad esempio del Regno Unito, che per esperienza conosco molto bene, ove le maglie sono molto più larghe per quanto riguarda il valutare merito e impegno degli studenti. Tuttavia, le nostre università tendono a posizionarsi a livelli molto più bassi rispetto a quelle britanniche (o straniere in generale) nelle classifiche qualitative internazionali. Vale forse la pena di chiedersi perché?

La ragione a mio parere è che queste classifiche basano buona parte delle loro valutazioni sulla quantità e qualità di ricerche portate avanti dalle specifiche università e sulle loro pubblicazioni. Come ben sappiamo, la ricerca costa, ed è proprio per questo che le nostre università soccombono rispetto ad altre università straniere: anche a parità (o perfino superiorità) qualitativa di insegnamento le nostre università sembrano destinate a trovarsi in posizioni più basse delle classifiche internazionali per la costante mancanza di fondi. Basti pensare che nella classifica del Times per il 2020 l’ateneo italiano piazzato meglio è la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa in posizione 149. Deludente a dir poco per l’ottava potenza mondiale.

Ovviamente la differenza sta nel fatto che le università britanniche sono in prevalenza private e le rette annuali che parte almeno dalle 8.000 sterline, sicuramente un prezzo non accessibile a tutti, costituiscono fondi importanti per sostenere le ricerche delle singole università. Lungi da me voler sostenere gli atenei privati ma è necessario tenere presente che queste classifiche sono fondamentali, almeno a livello di marketing, per attirare gli studenti stranieri nelle nostre università poiché, oltre ad esportare il buon nome dell’istruzione italiana, questi genererebbero anche un indotto non indifferente per il nostro paese.

Questo discorso è ovviamente importantissimo per le università ma meno rilevante per quanto riguarda scuole elementari, medie e superiori che si dovrebbero concentrare puramente sul crescere i cittadini del futuro, al netto di classifiche e marketing. Ed è proprio per questo che, nel mio piccolo, ritengo che separare scuola e università in due ministeri diversi sia un primo passo per concentrare gli sforzi nella direzione giusta, andando a ridurre gli sprechi e adottando strategie più specifiche per le diverse necessità delle due istituzioni.

Non sarà certo la panacea per tutti i mali, ma credo che sia un passo avanti al fine di ridare lustro internazionale al nostro tanto bistrattato mondo accademico.

Attualità, Italia, Politica

Matteo Salvini: l’État c’est moi. Il congresso e la rivoluzione (stipendiata) del leader leghista

Bisogna dare atto all’ex ministro dell’Interno della sua innata capacità di riuscire ad essere sempre in campagna elettorale, anche nonostante le avversità. Forse memore delle sue origini in seno ai Comunisti Padani, sembra voler essere incarnazione di quelli che Lenin chiamava “Rivoluzionari di Professione”: militanti politici di rango elevato dediti alla politica a tempo pieno. Questa figura che addirittura affonda le sue radici nella Rivoluzione Francese, forse archetipo moderno del concetto stesso di rivoluzione, è espressione della nobile volontà di alcuni individui di dedicare la propria esistenza alla demolizione degli ordinamenti esistenti, tutti in qualche misura corrotti dallo spirito borghese, in base alle volontà del popolo sovrano.

Matteo Salvini sembra spesso fare leva sulla sua figura da rivoluzionario di professione (di nome e di fatto visto che lo fa a spese dei cittadini dal 1993), per attivare le passioni delle masse e mobilitarle per il raggiungimento dei propri scopi. Proprio oggi il leader della Lega ha infatti dichiarato al congresso straordinario del partito che «il popolo è in cammino e quando un popolo sente il profumo della libertà non ci sono manette che tengano»: una meraviglia del linguaggio utilizzato ai fini della distorsione del pensiero.

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La sua libertà personale – minacciata dalla richieste di autorizzazione a procedere contro di lui per le vicende legate al caso della nave Gregoretti – diviene personificazione della sete di libertà del popolo leghista che, a detta sua, è in marcia verso il raggiungimento di un obiettivo finale. Quale sia questo obiettivo e da quale oppressione scaturisca questa sete di libertà sarebbe lecito domandarlo al popolo leghista, ma temo che le risposte spazierebbero dall’evergreen “Roma ladrona”, alla fantomatica invasione di clandestini, passando per la dittatura del pericoloso stalinista Giuseppe Conte.

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Salvini ha addirittura rincarato la dose dichiarando che «questi giudici non attaccano me ma attaccano un popolo e la sovranità nazionale, il diritto alla sicurezza e alla difesa dei confini». In altre parole «L’État c’est moi» – Lo Stato sono io. La frase erroneamente attribuita a Luigi XIV porta in sé un’ovvia connotazione assolutistica, cioè fondata sull’identificazione tra lo Stato e la persona del Re, che non si discosta molto da quanto espresso da Matteo Salvini al popolo leghista: io sono voi ed ogni attacco a me è un attacco a voi.

L’ex titolare del Viminale ha addirittura ritenuto opportuno rincarare alla frase citata sopra con una storpiatura da Ancien Régime: «non attacco la magistratura, c’è qualcuno che mette in discussione il diritto, per un ministro, di occuparsi di sicurezza. E allora affidiamo il governo del Paese ai giudici». Il fatto che un ministro debba agire nei limiti posti dalla Costituzione non sfiora minimamente Matteo Salvini, che anzi si auto-assolve in virtù del sostegno popolare e trova lecito bistrattare il sistema giudiziario che non l’ha lasciato operare al di sopra della legge.

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Sin dai tempi della rivoluzione francese la separazione dei poteri è cardine dello Stato moderno: l’abitudine di presenti e passati esponenti dell’esecutivo di accusare i giudici di interferire con il loro operato è un’anomalia tipicamente italiana. Un’anomalia legittimata durante vent’anni di berlusconismo che deve essere rettificata quanto prima perché il Popolo, entità sovrana, ritrovi la fiducia nelle istituzioni.

Per questo motivo a volte sarebbe giusto ricordare a tutti i lautamente stipendiati ministri “rivoluzionari di professione” la loro formula di giuramento: «giuro di essere fedele alla Repubblica, di osservarne lealmente la Costituzione e le leggi e di esercitare le mie funzioni nell’interesse esclusivo della Nazione». Ripeto: «di osservarne lealmente la Costituzione e le leggi e di esercitare le mie funzioni nell’interesse esclusivo della Nazione».

Attualità, Politica, Società

Zuckerberg vs Ocasio-Cortez: l’arroganza della politica

A quanto pare sono l’unico ad essere rimasto esterrefatto dall’imbarazzante comportamento di Alexandra Ocasio Cortez nell’udienza a Mark Zuckerberg, ma la verità è che non me ne vergogno. Confesso di avere, in passato, nutrito simpatie per la giovane rappresentate dell’ala più a sinistra dei democratici statunitensi, ma credo che in questo frangente abbia mostrato tutta la sua inesperienza e inadeguatezza. Sembrava, almeno ai miei occhi, che la sua volontà fosse di trasformare una seria discussione su un progetto come Libra – la criptovaluta di Facebook – in una piccola celebrazione della sua bravura come inquisitrice contro quei miliardari che affamano il suo elettorato. Un fantastico video acchiappa-like su Facebook (ironico, vero?) che sicuramente le porterà grande ammirazione popolare, ma che ha reso quanto mai evidente la sua volontà di fare in modo che tutti guardassero il dito mentre Zuckerberg puntava alla luna. La giovane politica americana lo ha infatti incalzato sulla passata vicenda legata a Cambridge Analytica – lo scandalo dei dati degli utenti Facebook rubati e usati anche a fini elettorali – adducendo come motivazione il fatto che «per prendere decisioni su Libra, dobbiamo scavare nel comportamento passato di Facebook riguardo al rispetto della democrazia».

Il sottoscritto è, nel suo piccolo, contrario al progetto Libra per svariate considerazioni di tipo legale e tecnico, ma ridurre la conversazione su un progetto di tale portata ad una disquisizione su uno scandalo passato significa non avere capito esattamente la rivoluzione che il progetto implichi. La Ocasio-Cortez non ha fatto altro che punzecchiare il miliardario americano dove fa più male traendo vantaggio dalla sua indiscutibile superiorità oratoria rispetto a Zuckerberg, che è risultato impacciato e timido nella difesa. Lei sapeva perfettamente che concetti così complessi richiedono tempi di elucubrazione ed elaborazione che lei ha fatto di tutto per non concedere, risultando arrogante e fastidiosa. Zuckerberg in una prima analisi è sembrato incapace di rispondere a tono, ma in realtà, riguardando il video, viene da pensare che quanto lo metteva in imbarazzo era l’ignoranza della Ocasio-Cortez su come un business di tale entità venga gestito e la sfacciata volontà di continuare a non capirlo.

Aggiungo, come nota a lato, che le domande della Ocasio-Cortez erano perfettamente legittime e le sue critiche sensate, ma così triviali che, francamente, è dispiaciuto vedere Zuckerberg buttare via il suo tempo per spiegare una realtà che già tutti conoscevamo. Inoltre, la sfacciata arroganza da moderna inquisitrice della Ocasio-Cortez stonava di fronte ai meriti di un ragazzo che, piaccia o meno, ha rivoluzionato il modo in cui tutti noi ci relazioniamo. È lecito pensare che un personaggio di tale caratura meriti gli sia dato tempo di rispondere quando gli viene fatta una domanda? È lecito pensare che un oratore con più esperienza politica ed arroganza avrebbe facilmente neutralizzato le domande della Ocasio-Cortez e mostrato l’incompetenza di quest’ultima in materia? È lecito pensare che quando l’arte oratoria prevale sui concetti ultimi allora siamo di fronte ad una forma di mistificazione della realtà?